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Le
motivazioni della persecuzione nazista nei confronti dei Bibelforscher. Ovvero,
di alcune analogie con quella razziale e delle differenze. |
Le
motivazioni della persecuzione nazista nei confronti dei Bibelforscher. Ovvero,
di alcune analogie con quella razziale e delle differenze.
Sarebbe
un errore considerare il fenomeno oppressivo e persecutorio, così come la
deportazione, posti in essere dal regimi nazionalsocialista e, in subordine, da
quello fascista nei confronti dei testimoni di Geova come eventi unitari e
integralmente razionalizzabili sotto un'unica cifra interpretativa. In altre
parole: se la fenomenologia degli stessi, ovvero le concrete manifestazioni, sia
pure nella loro molteplicità, sembrano rispondere a linee preordinate e si
attuano seguendo una logica di realizzazione precostituita, le premesse ideologiche
così come le matrici culturali, ovverosia le ragioni di fondo che
portarono i poteri costituiti a farsi poteri persecutori, in questo come
in altri casi, appaiono a tratti, meno chiare ed autoevidenti, almeno ad
un’attenta analisi. Il quesito di fondo al quale occorre trovare una concreta
risposta ruota intorno alle motivazioni di una violenza di stato,
esercitata da parte di una maggioranza nei confronti di una minoranza, seguendo
i metodi e i criteri che erano stati propri a società frammentate e divise
quali quelle che risiedevano nel nostro continente quand’esso era dilaniato
dalle lotte di religione. Ovvero con un recupero di moventi e metodi che
sembravano consegnati, almeno per l’Europa, ad una storia del tutto trascorsa
e destinata a non ripetersi. E’ con l’esperienza del nazismo e del fascismo,
infatti, che antichi pregiudizi conoscono rinnovato fulgore, assumendo la
funzione di strumenti di governo delle società e di gestione delle comunità
nazionali. Ciò che questi regimi reintroducono nel contesto delle relazioni
sociali è l’uso dell’odio come potente catalizzatore degli umori della
pubblica opinione e come fattore di creazione del consenso attorno ad una
leadership altrimenti debole e priva di proposte politiche credibili. Lungi
dall’essere elemento di divisione o di anarchizzazione del tessuto sociale
l’identificazione di nemici interni (alla nazione, alla società, alla
comunità) e la loro persecuzione rinsaldano i vincoli di appartenenza e
solidarietà tra i membri della maggioranza che, a spese di minoranze fragili e
emarginabili, ricostruiscono una sorta di patto di cittadinanza alla cui base
c’è l’inclusione di certuni e l’esclusione di altri. Tutta la vicenda
dell’antisemitismo biologista professato nella Germania hitleriana e praticato
fino ai suoi estremi esiti va inquadrato all’interno di questo percorso
logico. Può dirsi la stessa cosa per le sistematiche violenze esercitate contro
una minoranza quale quella costituita dai cosiddetti “studenti della
Bibbia”? Perché il regime temeva tale Congregazione e, ancor di più, per
quale ragione recuperò alcuni aspetti oscurantistici dell’intolleranza
religiosa dei secoli andati per giustificare l’operato avverso ad essa?
Ancora: fino a che punto i testimoni di Geova potevano costituire un fattore di
destabilizzazione per Hitler e i suoi uomini? E come è possibile che in un
paese che pur aveva conosciuto la tragedia delle guerre di religione nei secoli
trascorsi ma che ora faceva parte del consesso della nazioni civili, vi
potessero tornare ad albergare i fantasmi del passato?
Il
punto di fondo dal quale partire per compiere una ricognizione di senso è il
riscontro che nel XX secolo i processi di secolarizzazione, di separazione tra
sfere di potere e di sovranità così come la definizione di giurisdizioni
assolute sono fatti in sé compiuti. La minaccia che un culto può esercitare
nei confronti dei poteri civili è assai contenuta. Gli ambiti di azione e
relazione sono stabiliti e stabilizzati; così nell’Europa odierna come nella
Germania degli anni trenta, per l’appunto. In altri termini: la funzionalità
della persecuzione delle minoranze, tanto più se religiose, è prossima al
grado zero per parte delle autorità civili, se di essa se ne valuta il solo
aspetto relativo alle politiche di omogeneizzazione sociale e di bilanciamento
culturale. La varietà religiosa, almeno entro certi limiti, non è più un
pericolo da temere, in sostanza. Se la laicità degli ordinamenti è oggetto di
una costante contrattazione, tuttavia le democrazie liberali e
socialdemocratiche conservano in sé gli strumenti per delimitare le aree di
influenza dei soggetti in campo, a partire dalle stesse confessioni, senza
ricorrere a strumenti coercitivi che eccedano il disposto legale e
costituzionale. Di fatto si esercita un doppio movimento: la separazione
delle sfere d’influenza (l’etica alle diverse declinazioni della metafisica,
tra cui le religioni; la fisica dei poteri allo stato e alle sue diverse
determinazioni) e l’incorporazione delle figure istituzionali (le
Chiese e le associazioni religiose) dentro il tessuto civilistico
dell’ordinamento giuridico vigente, garante e vincolante l’operato delle
stesse rispetto a quelli che sono confini reputati invalicabili.
Altro
discorso, invece, è il problema della concorrenzialità tra culti: è argomento
significativo, che nella vicenda di cui andiamo parlando ebbe parte rilevante
– in particolare modo per quanto concerne l’atteggiamento della Chiesa
cattolica, sia verso i testimoni di Geova che nei confronti, soprattutto, degli
ebrei – ma che non giustifica da solo la condotta fatta propria dai nuovi
signori della Germania, la cui vocazione oppressiva si nutriva di motivazioni
proprie; di quelle altrui semmai, si alimentava solo in termini di
legittimazione di un intendimento autonomamente e anticipatamente maturato.
Come
risolvere allora la discrasia che si ingenera tra un modello di stato,
affermatosi in Europa, fondato sulla astensione dalla gestione degli affari
dello spirito e la repentina affermazione in Germania di un nuovo ordinamento
politico ed istituzionale che tende ad elidere i confini e a minare le garanzie
di autonomia delle parti?
Si
parta allora da un assunto: il potere politico nella sua versione nazificata non
è laico bensì religiosizzato (1), investendo sfere di inalienabile autonomia
dell’individuo, proponendosi come una forma civile di credo metafisico,
adottando liturgie e pratiche cultuali non dissimili da quelle proprie agli
stessi milieu religiosi, sussumendo all’interno della propria area
d’influenza identità e soggettività distinte e superando la tradizionale
separazione tra gruppi e attori dello scenario politico e culturale. Va infatti
compreso che “il fine del totalitarismo è la trasformazione della natura
umana, la conversione degli uomini in ‘fasci di reazioni intercambiabili’; e
tale fine è perseguito mediante una combinazione, specificamente totalitaria,
di ideologia e terrore. L’ideologia totalitaria pretende di spiegare con
certezza assoluta e in modo totale il corso della storia; diventa perciò
indipendente da ogni esperienza o accertamento fattuale; e costruisce un mondo
fittizio e logicamente coerente, dal quale derivano direttive d’azione la cui
legittimità è garantita dalla conformità con la legge dell’evoluzione
storica. Questa logica coattiva dell’ideologia, persi tutti i contatti col
mondo reale, tende a mettere in ombra lo stesso contenuto ideologico, e a
generare un movimento arbitrario e permanente. Il terrore totalitario, a sua
volta, serve per tradurre in realtà il mondo fittizio della ideologia, a
confermarla tanto nel suo contenuto quanto – soprattutto – nella sua logica
deformata. Esso colpisce, infatti, non solo i nemici reali (…); ma anche e
tipicamente i nemici‘oggettivi’, la cui identità è definita
dall’orientamento politico-ideologico del governo, anziché da un loro
desiderio di rovesciarlo” (2). Nel caso della persecuzione dei testimoni
di Geova ci si trova in quest’ultimo contesto. Nemico oggettivo è
colui che viene fatto oggetto di una violenza, legittimata e legalizzata
attraverso la burocratizzazione istituzionale e la serializzazione operativa,
non in base a quel che fa ma per ciò che gli è ascritto. Qualità negative, va
da sé, la cui attribuzione è finalizzata alla sua definizione, separazione,
esclusione ed infine eliminazione dal corpo sociale. L’esercizio di una
violenza di stato nei confronti di quanti – singoli o gruppi – ne diventano
destinatari, stigmatizzati e resi capri espiatori, serve a rafforzare i vincoli
tra i persecutori e quell’ampia zona di conniventi, perlopiù non concorrenti
direttamente alle pratiche oppressive, la cui compartecipazione “silenziosa ed
assente” funge all’obiettivo di creare un patto di reciprocità tra potere e
società. Chi volta le spalle all’obbrobrio della prevaricazione
istituzionalizzata, se ne rende in qualche modo corresponsabile. Il silenzio è
un prezioso tributo che si paga sull’altare dell’interesse alla propria
esistenza e, fors’anche - almeno a volte - sopravvivenza. O molto spesso,
assai più prosaicamente, in virtù di un calcolo sui possibili ritorni, non
solo economici, che l’indifferenza permette di ottenere. Una sorta di novello
patto faustiano dove la società civile offre all’ordinamento politico la
propria anima in cambio di una serie
di garanzie di stabilità e continuità. Fatto quest’ultimo, che se nella
Germania degli anni trenta, così come nell’Italia del decennio precedente,
sono ben intellegibili, all’aldilà dei singoli, specifici episodi richiamano
questioni di fondo che sono alla radice dell’operare umano nella nostra
contemporaneità (3).
Il
problema non è solo di ordine etico ma coinvolge direttamente la riflessione
sulla radice stessa dei legami sociali e di come, anche nelle moderne comunità
nazionali, il patto di inclusione dei più si preservi e continui a funzionare,
soprattutto nei frangenti socioeconomici, attraverso l’identificazione di capri
espiatori, ovvero per mezzo dell’esclusione di altri. Designati ad hoc
come vittime, in quanto occasionalmente funzionalizzabili per un tale ruolo, gli
individui che ricadono in quest’ultima categoria assurgono al ruolo di
catalizzatori delle qualità negative che una società imputa a sé, in un
processo di attribuzione ascrittiva che, di passo in passso, si fa sempre più
gravoso per i destinatari ed irreversibile negli effetti. La cui devastante
misura è pari alla radicalizzazione che questo subisce. E le cui vittime,
divenendo autentici agnelli sacrificali, sono condannate ad una doppia pena: la
prima, quella dell’esclusione dai circuiti sociali, della detenzione in ambiti
separati (i lager) e dell’eventuale distruzione fisica; e la seconda, quella
della damnatio memoriae ovvero della cancellazione delle tracce della
loro presenza dal novero delle cose terrene, in una sorta di riscrittura della
storia che vorrebbe estirpare tanto i corpi quanto i segni del loro passaggio
terreno. La vicenda degli ebrei europei è sintomatica e ampiamente eloquente a
tale riguardo. Parimenti, fatte le debite differenze, può dirsi della
persecuzione dei testimoni di Geova in quanto membri di una minoranza
religiosa e non come componenti di una “razza”: se nei confronti di
questi l’arbitrio si esercitava in virtù dell’appartenenza ad un gruppo,
con il quale rescissi i legami venivano a mancare i presupposti per la
prosecuzione delle violenze, per gli ebrei la motivazione era ideologicamente più
netta, nella misura in cui trovava come ragione fondante il costrutto
antropologico.
Nei
sistemi totalitari l’autolegittimità sopravanza la legalità ed incorpora i
processi di rappresentanza che sono, invece, alla radice dell’operato
democratico. La forza - se così la si vuole chiamare - dei regimi totalitari
sta nella capacità, sul piano politico, di inglobare al proprio interno,
fagocitandoli, tutti i differenti segmenti di cui si compone la complessa e
variegata prassi di formazione e definizione della decisione, attraverso il
coinvolgimento della collettività. Coinvolgimento, quest’ultimo, che pur
avviene ma solo più ad un livello di passivizzazione e sanzione plebiscitaria.
Sul piano sociale è totalitario quel potere che riesce a far collimare il
pluralismo delle articolazioni comunitarie ai costrutti della propria volontà,
costituendosi così in regime. Il totalitarismo compiuto si ha quando non è
lasciato più alcun spazio a qualsivoglia forma di pensiero che non collimi con
quello dominante, non importa se oppositivo o meno che sia. La sovrapposizione e
la coincidenza tra la volontà dei dirigenti e il pensiero dei diretti deve
essere totale. O per l’appunto totalitaria. Così come le articolazioni
sociali devono essere integralmente ricondotte a quello che è concepito come
l’unico grado di legittimazione possibile, quello fornito dal centro politico.
In una inversione di ruoli, laddove non è più la comunità a riconoscere la
validità del circuito di governo ma, semmai, viceversa.
Sia
detto di sfuggita che la possibilità per un qualsiasi culto di svilupparsi è
direttamente proporzionale al contesto sociopolitico in cui opera: la
Denominazione cristiana dei testimoni di Geova, non a caso, è figlia di quel
paese, gli Stati Uniti, che sono stati culla di molteplici esperienze religiose
e che della libertà di culto ne hanno fatta questione di principio, al punto da
incorporarla all’interno del loro massimo statuto, la Costituzione. Questo, al
di là dei complessi e a volte illineari percorsi d’implementazione, è un
obbligo di riscontro. A rischio di riconoscere l’intima contraddizione che
vige tra la condizione di distinzione in sfere separate vigente nei sistemi
politici liberali, che è garanzia del soddisfacimento dei bisogni di
comunicazione e della realizzazione della libertà di espressione ed esercizio
del proprio credo e propensione, per parte dei singoli culti, a sovrapporsi alla
varietà per ricostruire un’unità che risiederebbe nella realizzazione del
dettato della propria teologia. A scapito, almeno in potenza, di quelle stesse
regole che garantiscono attraverso il pluralismo la manifestazione delle
diversità. Ma che le democrazie sociali contemporanee siano un complesso di
equilibri e di bilanciamenti oggetto di costante ricontrattazione, già lo si è
detto e non ci si soffermerà ulteriormente.
La
neutralità che la Congregazione legittimamente rivendica nei confronti dei
poteri costituiti non può quindi tradursi in indifferenza: la vicenda di cui
andiamo parlando, peraltro, lo comprova a chiare lettere. Poiché la premessa
affinché i testimoni di Geova, così come altri culti, possano esistere, è la
praticabilità della scena pubblica. Il cui governo è di pertinenza anche e
soprattutto del politico. Che nei regimi ad impianto totalitario si sovrappone
ad ogni altra determinazione, giungendo ad esprimerne la volontà o, in caso di
irriducibilità al proprio progetto, a distruggerne la presenza.
Sgombriamo
subito il campo da equivoci di sorta: per parte dei regimi autoritari e,
soprattutto, totalitari, sussisteva un’avversione di principio nei confronti
della Congregazione. In altre sedi (3) già si è avuto modo di ribadire, con
cognizione di causa e supporti testimoniali e documentari, ragioni ideologiche
ed anche criteri operativi di tale condotta. Le accuse rivolte a quella che era
considerata una “setta” variavano di circostanza in circostanza ma era
riconducibili ad alcuni cliché permanenti: l’internazionalismo spirituale ed
organizzativo, l’accusa di criptosemitismo e filobolscevismo,
l’antinazionalismo, il pacifismo confesso e dichiarato, la simpatia per i
regimi liberali (evidentemente, quest’ultima, non di ordine strettamente
politico bensì “esistenziale”). Tali connotazioni erano di natura
attributiva, ovvero erano conferite ai loro destinatari, i membri della
Congregazione, per delegittimarne la presenza e l’operato senza una verifica
empirica delle effettive opinioni ed un riscontro fattuale. Non necessariamente
corrispondevano a qualità e posizioni assunte dai gruppi dirigenti o, comunque,
dagli appartenenti al culto. Che professavano, peraltro, la propria dichiarata
“neutralità” rispetto al regime vigente.
In
realtà due erano i fattori che maggiormente incidevano nel giudizio avverso ai
testimoni di Geova:
1.
su un piano più strettamente socioculturale si identificava la capacità
di attrazione, dovuta sia ad istanze dottrinali che ad una capillare opera di
conversione, che il gruppo iniziava a svolgere nei paesi in cui era presente.
Qualificandosi così, a volte suo malgrado, come un competitore nei confronti di
regimi la cui stessa natura - per l’appunto totalitaria -
presupponeva il controllo sistematico e il monopolio rigoroso di tutte le
forme di strutturazione e manifestazione del pensiero e di determinazione dei
momenti di socializzazione e di socialità. Aspetto, questo, che connota il
nazionalsocialismo e i fascismi nel momento in cui da movimenti si trasformano
in istituti politici permanenti, sovrapponendosi e compenetrando tutte le
strutture sociali esistenti. Nessun spazio, neanche residuale, doveva essere
concesso a forme di autorganizzazione alternative a quelle imposte dai nuovi
padroni. Tanto più quando queste erano depositarie di un culto che si proponeva
come modello di vita, come forma di esistenza, capace di informare di sé più
aspetti della quotidianità del professante;
2.
su un piano ideologico, a parte la implicita contrapposizione
escatologica tra due soggetti vocati ad una concezione finalistica e teleologica
del processo storico, si poneva il problema, imprescindibile per i fascimi e il
nazismo, di un qualche accordo con le Chiese ufficiali. Di queste ultime ne
veniva identificata la capacità di indirizzo e organizzazione per un numero
elevato di credenti. Si coglieva, insomma, il rischio di una diarchia tra i
partiti al potere e le istituzioni ecclesiali, che non avrebbe di certo
agevolato i primi. Se nel caso delle opposizioni politiche la strada seguita era
quella della repressione sistematica, nei confronti dei culti “ufficiali”
(considerati tali per il grado di presenza nel tessuto sociale e per l’elevato
livello di istituzionalizzazione delle loro pratiche) il discorso era molto più
complesso. La percezione del proprio grado di influenza sul corso degli eventi
per parte del Vaticano, ad esempio, è una delle chiavi per comprendere
l’atteggiamento assunto da Pio XII nei confronti del nazifascismo.
Atteggiamento del tutto distinto, se non opposto, a quello fatto proprio nei
confronti del comunismo staliniano. Del quale si avversava non solo il progetto
sociale ma anche e soprattutto la politica di repressione che poneva i religiosi
su un piano non diverso da quello degli oppositori politici. Per raggiungere
l’obiettivo di un accomodamento temporaneo dei rapporti – estrinsecatosi in
Germania come in Italia attraverso i regimi concordatari – i nuovi poteri
scesero letteralmente a patti con le istituzioni ecclesiali. Contravvenendo così
– almeno in parte – alla loro vocazione totalitaria; ma adempiendo ad una
necessità improrogabile, quella di evitare l’aprirsi di un fronte
conflittuale, difficilmente gestibile, con figure forti e potenzialmente
concorrenti. Affinché ciò andasse a buon esito, necessitava loro sgombrare il
campo dalla presenza di figure eccentriche ed estranee al campo dei culti
consolidati ed istituzionalizzati. I testimoni di Geova, soprattutto in
Germania, erano la variabile irriducibile a questo disegno di “stabilizzazione
temporanea” dei rapporti tra due poteri, quello politico di Hitler e quello
spirituale delle Chiese. Soprattutto due erano i fattori che stridevano con tale
costruzione: il proselitismo e il pacifismo. Il primo implicava
una presenza attiva nella società, il proporsi come soggetto di identificazione
ed adesione. E ciò, di fatto, impediva alla Denominazione il ricorso, in quanto
risorsa per la sopravvivenza del gruppo, alla mimetizzazione sociale attraverso
la sospensione delle pratiche di conversione. La propensione alla grandi
iniziative pubbliche, alle liturgie collettive, alla produzione e alla
diffusione di una stampa alternativa a quella ufficiale, strideva poi con la
pretesa del regime di monopolizzare ogni ambito sociale, “nazificandolo”
secondo i dettami non solo della sua dottrina ma attraverso il criterio
dell’esclusivismo organizzativo e rappresentativo. Il secondo, il dichiarato
pacifismo, faceva sì che tra la vocazione bellicista e militarista del nuovo
ordine hitleriano e l’avversione di principio nei confronti dell’uso della
violenza, ancor di più se istituzionalizzata, si generasse un campo di tensioni
e di scontro irriducibile a qualsivoglia forma di mediazione. L’opposizione
dei Bibelforscher, prima ancora che per un atto di consapevole avversione nei
confronti di un ordinamento politico di cui comunque misuravano, di giorno in
giorno la distanza rispetto ai loro principi etici, nasceva dalla maturata
consapevolezza che lo spazio di manovra andava sempre più riducendosi. La Dichiarazione
dei fatti del 1933 (5), oggetto di ripetute polemiche, esprime nella forma,
prima ancora che nei contenuti, la disperata cognizione di quanto stava
avvenendo ed il tentativo di mantenere un margine d’azione che il regime
nazista non avrebbe comunque concesso in alcun modo. Il collassamento dei
rapporti tra i nuovi padroni della Germania e la Congregazione era quindi
nell’ordine delle cose. Si generava in virtù dell’incompatibilità
esistenziale tra le due entità – regime e Denominazione. Riducendo ai minimi
termini il tutto, la questione si poneva sul piano del conflitto per una comune
posta in gioco – la gestione delle anime – al quale venivano offerte due
opposte soluzioni: dominio o liberazione. Il Mein Kampf contro la Bibbia,
insomma, la fascistizzazione contro l’evangelizzazione. Per il laico tale
prospettiva può risultare assai poco stimolante; per il credente può fare la
differenza tra la vita e la morte. Scegliendo il messianesimo religioso, ed
adempiendo con coerenza e coraggio ai suo dettati, ci si poneva in rotta di
collisione con gli apparati repressivi dello stato totalitario.
Fermo
restando, quindi, il presupposto di una irriducibilità del movimento
religioso dei testimoni di Geova alla volontà e alle ragioni dei regimi
presenti sulla scena europea a cavallo tra gli anni venti e quaranta -
irriducibilità che era nei fatti, prima ancora che nelle volontà, trattandosi
di un culto radicalmente eccentrico e intimamente oppositivo alla natura propria
di questi – così come la determinazione con la quale questi ultimi agirono
nei confronti dello stesso, rimane il problema di identificare gli indirizzi di
fondo della politica repressiva posta in essere per eradicare le radici di ciò
che con termine spregiativo veniva chiamato il “geovismo”.
Infatti,
lungi dal ridursi a meccanismi perfetti e ben oliati, i regimi che
perseguitarono i testimoni di Geova, così come i membri di altre minoranze
culturali, sociali, politiche ed “etniche” all’epoca, identificavano e
realizzavano i loro obiettivi seguendo criteri orientati ad un fine chiaro e
netto (la bonifica culturale, politica, sociale ed in ultimo razziale della
società) ma mutevoli nelle forme. La flessibilità era una virtù, se così la
si vuol definire, dell’apparato persecutorio nazifascista. Una flessibilità
operativa che nulla aveva a che spartire con l’accondiscendenza nei confronti
di quanti era visti sempre e comunque come oppositori ma che molto doveva al
gioco delle circostanze. Ed anche alla implicita contraddittorietà e alla
mutevolezza negli equilibri decisionali, dei soggetti che vi prendevano parte e
dei metodi adottati per la implementazione del decision-making. Lo scontro era
tanto più violento e il conflitto tanto più furioso quanto maggiore era
l’area d’incertezza in cui si trovano ad agire quanti erano preposti
all’esecuzione del comando (6).
A
tal riguardo è senz’altro interessante enumerare le accuse che contro i
testimoni di Geova furono levate: che, non troppo curiosamente,
coincidevano o si approssimavano alle colpe ascritte agli ebrei.
Internazionalismo, filobolscevismo, plutocapitalismo, simpatia per gli alleati
occidentali, intelligenza con il “nemico” e così via. Peraltro, se di
questi ultimi ultimi si qualificava la loro estraneità alla nazificata “comunità
nazionale di popolo” adducendo
criteri razziali, proprio in virtù dell’incosistenza scientifica ed empirica
degli stessi si doveva fare ricorso
alle categorie religiose al momento della definizione e identificazione dei
destinatari delle persecuzioni. Come la vicenda delle cosiddette leggi di
Norimberga del 1935 chiaramente esprime i nazisti se, da un lato, dichiaravano
che l’ebraicità non era una condizione religiosa bensì biologica – la cui
proiezione, secondo questo costrutto, trascendeva il dato naturale per tradursi
in progetto ideologico (alla razza corrisponde un’intenzione egemonica) – al
contempo per definire questa interiore costituzione, per l’appunto la
“genetica dello spirito”, ci si affidava a definizioni e declinazioni
prevalentemente religiose. Un paradosso, una contraddizione in termini, un
cortocircuito che informava di sé tutta la struttura delle persecuzioni
razziali. E qui possono intervenire alcune analogie, entro ovviamente i dovuti
limiti, con la vicenda dei Bibelforscher:
1.
intanto, né l’uno né l’altro gruppo costituivano un serio pericolo
per il regime. Ancora una volta non ci si stancherà di ripetere che né le
comunità ebraiche né gli “uomini della Bibbia” erano per loro intima
natura dei gruppi oppositivi. Non almeno a priori. Non di certo perché nel loro
statuto etico sussistesse una qualche vocazione politica. Esistevano per
assolvere a ruoli distinti e ben diversi da quelli propri alle organizzazioni
politiche, sindacali e a quel milieu sociale e culturale che intorno a queste
ultime ruotavano. Mentre le comunità ebraiche erano associazioni,
giuridicamente riconosciute, di singoli individui appartenenti, poiché
praticanti, alla religione mosaica o i cui avi erano essi stessi definiti ebrei,
i testimoni di Geova erano una confessione cristiana senza finalità che non
fosse l’esercizio del proprio culto. Le strutture organizzative delle une come
degli altri sono sempre state funzionali agli obiettivi manifesti e conclamati.
Va da sé che in quanto sodalizi umani potessero occasionalmente entrare in
contatto con altri gruppi più o meno strutturati. Ma la sostanziale neutralità,
soprattutto politica, era un dato incontrovertibile. Da un punto di vista
sociologico, poi, l’eterogeneità degli elementi che, soprattutto nel caso
degli ebrei, facevano parte delle comunità presenti sul territorio germanico,
rendeva pressoché impossibile qualsivoglia criterio organizzativo che non fosse
quello richiamato dagli statuti delle stesse: luoghi di socialità, di esercizio
del culto e di attività culturale e caritative. E’ peraltro un classico del
pensiero antisemita l’identificare la presenza di propositi occulti sotto
l’apparenza quietistica (la teoria del complotto). Tale intendimento veniva
attribuito anche ai testimoni di Geova, dei quali, non a caso, per parte nazista
si mettevano in luce analogie con il semitismo e un elevato grado di “giudaizzazione”.
L’accusa, neanche troppo implicita, in questo caso, era quella di contaminarsi
con il nemico di razza per eccellenza, venendo così meno al proprio arianesimo
e agli obblighi che derivavano dall’appartenenza ad un “sangue” che si
voleva puro e di nobili ascendenze, secondo la mistica razziale dominante.
Insomma, la cornice di riferimento era quella della razza come comunità di
destino alla quale i testimoni di Geova si sarebbero sottratti;
2.
la questione del pacifismo e, più in generale, del rapporto con gli
ordinamenti politici terreni costituiva non solo un ulteriore elemento di
tensione tra il regime e la Denominazione cristiana ma anche un fattore per
alcuni tratti analogico con quanto riguarda le motivazioni di singoli aspetti
delle persecuzioni realizzate contro gli ebrei. Nella concezione del mondo
nazista non esisteva una umanità bensì un crogiolo di razze, caratterizzate da
un carattere ascrittivo – il sangue che connotava la bontà o meno
dell’appartenenza stessa – e il cui destino era quello di farsi la guerra.
Al termine di essa la razza migliore, quella ariana, avrebbe dominato su quanto
sarebbe residuato del resto delle comunità. Agli ebrei si contestava una sorta
di “genio malefico” che per vedere affermata la propria potenza, intesa come
volontà assoluta di dominio, si adoperava per indebolire la “purezza”
altrui. Purezza di razza, per l’appunto, che era nitore di sangue dal quale
promanava la forza e la determinazione di costruire l’egemonia
dell’arianesimo sulle altre stirpi, non meritevoli di governare poiché
inferiori, corrotte e imbastardite. All’interno di questa costruzione
ideologica non c’era spazio per quelle condotte che avrebbero potuto arrecare
danno o indebolire le condotte congruenti a questa volontà di ferro e fuoco.
L’alterità della Congregazione dei testimoni di Geova introduce,
nell’ottica nazista, elementi di indebolimento nella rigida struttura del
pensiero voelkich, fondato sulla razzizzazione di tutti i rapporti
sociali, sulla costruzione di un’egemonia imperiale tedesca nei confronti
dell’Europa e sul ridisegno sociodemografico delle comunità che ne facevano
parte. L’indisponibilità all’assunzione e alla condivisione dei rituali e
delle liturgie paganeggianti del Terzo Reich; la manifestazione esteriore di una
diversità rispetto allo spirito dominante, coltivata ed espressa con orgoglio;
la preservazione di uno spazio proprio all’interno del quale esercitare non
solo le prerogative del culto ma costruire anche una soggettività sottratta ai
dettami del pensiero unico dominante; l’indisponibilità verso il servizio
militare e, più in generale, nei confronti di quegli atti e di quei gesti che
comportavano la subordinazione al bellicismo dilagante erano fattori che
scavavano uno iato inseparabile tra il regime e la Denominazione. Segnandone il
destino. La questione del rifiuto al ricorso alle armi è di capitale importanza
poiché segna il punto di non ritorno tra i due soggetti: una comunità ed uno
stato che si preparavano ad una guerra su più fronti, dai connotati palesemente
imperialistici, una dottrina politica fondata sulla volontà di potenza intesa
come esercizio bellico, il coinvolgimento dell’intera società in uno sforzo
spasmodico, volto alla realizzazione degli obiettivi di una leadership orientata
alla conquista, non potevano tollerare che una parte della popolazione si
sottraesse agli imperativi vigenti, ponendo a rischio il loro raggiungimento. Il
rifiuto di prestare servizio nell’esercito, il diniego al saluto, la
sottrazione agli obblighi della leva rappresentavano non un’infrazione
amministrativa ma un attacco al cuore del sistema nazista. E, nella logica dello
stesso, un’offesa alle prerogative sacre della razza ariana, guerriera per
definizione;
3.
se
il nazionalsocialismo si presentava come la dottrina del “nuovo ordine” dove
ogni cosa avrebbe trovato la sua giusta collocazione - e chi, essendone
eccentrico o estraneo, ne sarebbe stato espunto, eliminato -
l’ebraismo era il principio oppositivo. I seguaci di Hitler lo
tematizzavano come l’incarnazione del caos, del meticciato universale,
dell’ibridazione culturale e biologica, della confusione dei ruoli. E si
presentavano come i restauratori di un antica armonia, gerarchizzata, andata
perduta per via delle successive stratificazione e contaminazioni. Delle quali,
per l’appunto, erano responsabili gli ebrei. I quali usavano una leva
particolare, quella dell’internazionalismo, per diffondere confondere i
diversi piani di separazione tra le “razze” e porre in discussione l’arianocentrismo.
Ai testimoni di Geova veniva rivolta una accusa non dissimile, dal momento che
essi erano identificati in quanto emanazione di una centrale la cui sede era
estera e il cui operato si configurava come il prodotto di una volontà
cospirativa, di matrice massonica, contrapposta agli interessi della germanità
e, nel caso nostrano, dell’italianità. Quinta colonna, in sostanza, di
potenze straniere ma anche dell’imbastardimento della “comunità nazionale
di popolo”; diffusori di un credo che predicava la fratellanza contro la
guerra tra le “razze”; propugnatori di una sorta di meticciato universalista
alternativo al particolarismo delle stirpi.
L’avvio e la prosecuzione delle persecuzioni verso questa minoranza religiosa anticipò, logicamente e cronologicamente, alcuni aspetti delle violenze sistematiche che in un periodo immediatamente susseguente interessarono gli ebrei, tedeschi prima ed europei poi. Sarebbe inopportuno, oltreché ingeneroso moralmente e falsificante storiograficamente correlare fenomeni oppressivi che mantennero un certo grado di differenziazione. Ma proprio per capire le diversità è bene interrogarsi anche sulle analogie. Che vi furono e delle quali, ancor oggi, manca adeguata cognizione. Se vi sono distinti gradi di sofferenza è anche vero che i perseguitati di allora soffrirono tutti. Ed è ancor più vero che ogni dolore è sì soggettivo, nella misura che appartiene solo ed unicamente a chi lo vive, ma la sua comprensione è un impegno per chiunque senta di far parte dell’umanità, l’unica dimensione collettiva nella quale è legittimo riconoscersi senza distinzioni di sorta. Non a caso, perciò, negata dai regimi sui quali stiamo conducendo la nostra indagine.
Claudio
Vercelli
(1)
La bibliografia sul tema del totalitarismo è oramai vastissima. A titolo di
sintesi il volumetto di Simona Forti, Totalitarismo, Laterza, Bari-Roma,
2001 e la omonima voce redatta da Mario Stoppino per il Dizionario di
politica, per la direzione di Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco
Pasquino, Utet, Torino edizione del 1983.
(2)
Stoppino, op. cit., pag.1192
(3)
Gli articoli precedentemente pubblicati in questo stesso sito.
(4)
A tale riguardo Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino più
edizioni ma anche le riflessioni di Elias Canetti in Potere e sopravvivenza,
Adelphi Editore, Milano più edizioni anch’esso.
(5)
Sulla Dichiarazione si veda il testo ed un’ampia rassegna del materiale
di accompagnamento e di interpretazione disponibile su questo sito.
(6)
Su questo ed altri temi il canonico rifermento è al volume di Ernst Fraenkel, Il
doppio stato. Contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino
1983. Sussiste inoltre un’ampia produzione bibliografica che indaga sulle
complesse ramificazioni dei regimi a base totalitaria e sui processi di
formazione e realizzazione delle decisioni. La comprensione del problema delle
economie di potere è alla radice della identificazione dei diversi momenti di
formazione dei procedimenti repressivi, funzionali sempre e comunque alle prime.
Claudio Vercelli, storico e pubblicista, è ricercatore presso l’Istituto di studi storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto di ricerca e formazione sugli “Usi della storia, usi della memoria”.
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