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I
testimoni di Geova tra memoria e storia |
PERCHE’ PER TANTO TEMPO NON SI È PARLATO DI QUESTA STORIA? IN SOSTANZA, COME MAI SOLO OGGI, A DISTANZA DI TANTI ANNI, SI PARLA DI PERSECUZIONE NAZISTA DELLE MINORANZE E IN PARTICOLARE DEI TESTIMONI DI GEOVA?
Con questo lavoro di analisi storica Claudio Vercelli, ricercatore presso l'Istituto di studi storici Salvemini di Torino, risponde a questa domanda.
Indice:
Premessa
1. Capire poi giudicare.
2. Il fatto e la loro trasposizione
3. Le diverse stagioni di una storia comune.
Il
ritardo, poiché è da ciò che si deve partire, non è casuale ma neanche da
attribuire, forzatamente, ad un disegno dichiaratamente ostativo. Di certo, nel
caso dei testimoni di Geova, permane una sorta di pregiudizio
omissivo legato all’impropria associazione che si fa tra il giudizio sul
passato vissuto da questa Denominazione cristiana e l’immagine che
correntemente si ha in certi ambienti pregiudizialmente ostili. Come in una
lente deformante, si legge ciò che è stato sulla scorta di ciò che si ritiene
sia a tutt’oggi. E se il gradimento per parte di certuni, dell’opera come
della stessa presenza della Congregazione, non è tra i più elevati, parimenti
può dirsi dell’opinione che di riflesso viene espressa sui trascorsi della
stessa. Insomma, si omette laddove si può celare all’attenzione collettiva, o
si ammette, nel caso di ciò che è chiaramente palese, ma con un certo
imbarazzo. Segno della prevalente disposizione d’animo verso un gruppo che non
è ancora del tutto bene accetto, avvertito come una realtà estranea agli
ordinamenti secolari e, soprattutto, competitivo con i culti maggioritari e
concordatari.
Come
si avrà modo di argomentare, è comunque la vicenda stessa dell’oppressione
nazista e fascista delle minoranze, tanto più se religiose, ad aver fino ad
oggi ottenuto scarsa attenzione, soprattutto per parte della pubblica opinione.
Da una ventina d’anni a questa parte si sono intensificati gli studi e le
riflessioni ma la ricezione collettiva di questo tema – che richiama a sé,
immediatamente, le grandi questioni della laicità dello stato, del rapporto tra
minoranze e maggioranza, della tolleranza religiosa e culturale, del rispetto
delle diversità, dell’autonomia di scelta e coscienza – è ancora problema
aperto nelle nostre comunità.
Riflettere
sulle persecuzioni di allora, e del modo in cui sono state portate
all’attenzione collettiva dal dopoguerra ad oggi, è questione indice per
capire la natura dei nostri regimi politici, culturali e morali. Ancora una
volta la comprensione critica dell’oggi passa attraverso lo studio del
passato.
Il quesito, avanzato in esordio, apparentemente semplice nella sua formulazione, non lo è dal punto di vista delle implicazioni che richiama, ovvero della risposta che ad esso può essere fornita. Si parta da una premessa: tutto la vicenda dell’oppressione nazifascista e delle deportazioni che ad essa si associarono implica, nel giudizio delle generazioni che non le vissero, l’espressione di una serie di “perché?” destinati a rimanere inevasi o, comunque, insufficientemente risolti. E questo poiché è nella natura stessa dì quei regimi, radicali nei fini come nei mezzi che adottarono per raggiungerli, l’aver posto in essere politiche di inusitata violenza, di sistematica repressione e di totale annichilimento di quanti erano, di volta in volta, identificati come avversari da combattere o nemici da eliminare. E la radicalità stessa del progetto, come della strumentazione, implica l’essere dotati di una concezione dell’esistente, dell’umanità, integralmente diversa da quella che anima chi non si riconosce nello spirito e nell’operato di quello che si autodesignava come uno Herrenvolk, il “popolo dei signori” (significativa, almeno dal punto di vista semantico, la contrapposizione con il "popolo del Signore", gli ebrei e, più in generali, con tutti quanti erano latori di una concezione spirituale e cristiana della società terrena, a partire dagli stessi testimoni di Geova; ancora una volta si riconferma, anche sul piano linguistico, la radice antisemita ed anticristiana del regime hitleriano). In altri termini, il nazismo, così come parte degli stessi fascismi europei, aderiva ad una concezione sociodemografica della politica, volta a mutare la mappa biologica del continente e, in prospettiva, del mondo intero. Su questa disposizione di fondo – cornice ideologica di riferimento – si innervavano le singole iniziative, di politica estera come, successivamente, di condotta militare, in parte legate alla vecchia vocazione tedesca di costruire uno spazio egemonico ad est degli antichi confini, oltre la stessa Prussia orientale, in parte conseguenti al “nuovo spirito” razziale, che legittimava comportamenti inediti, tra cui quelli sterminazionisti.
Ora, a disposizione dell’umana ragione, quando questa è chiamata a giudicare l’operato di un organismo politico come di una comunità nazionale, sono in genere i concetti e le capacità cognitive preordinati per la soluzione di un certo ordine di problemi. Possiamo cogliere, razionalizzare ed interiorizzare quanto si colloca entro questa cornice, non quello che propende per sua natura a sfuggirle. E sfugge ad una immediata focalizzazione il nazismo in quanto fenomeno complesso poiché, per la interiore costituzione e, soprattutto, per l’operato che in dodici anni di esistenza come regime pose in essere, non si presta ad una riduzione alle mere categorie delle dottrine politiche.
Pertanto, molti dei quesiti che implicano, come si diceva in esordio, una risposta in qualche modo univoca, non possono essere soddisfatti né da un approccio monodisciplinare né, tantomeno, da un giudizio netto, “tranchant” che non riesce a racchiudere le molteplici sfumature e i differenti livelli d’interpretazione che sono invece richiamati nell’esercizio del giudizio su quel passato. Bisogna acquisire la capacità di dare indicazioni chiare raccogliendo e computando più dati e diversi criteri di comprensione. L’attività criminale esercitata dal Terzo Reich e dai regimi collaborazionisti è e deve rimanere, nella comune percezione, opera dell’azione umana, della sua volontà, prodotto precipuo delle scelte operate da certuni contro gruppi e individui definiti. Si tratta di identificare le responsabilità che pertengono a persone che fecero, consapevolmente, scelte i cui immediati effetti si riversarono o furono subiti da altre persone. In questo senso, rifugiarsi aprioristicamente in categorie metafisiche e spiritualistiche, se può appagare una certa necessità morale (ad esempio il distinguere tra il bene e il male), nulla può offrirci sul piano della comprensione storica. Che è una delle imprescindibili premesse, va detto, di qualsivoglia ulteriore riflessione, fors’anche etica, sull’impatto dei comportamenti umani, sul problema della capacità di giudizio e dell’esercizio della coscienza individuale in società quali la nostra. Ma, per l’appunto, l’esito al quale si deve pervenire è la costruzione di un circuito di saperi dai quali non derivi solo una fredda e asettica conoscenza ma anche e soprattutto una consapevolezza compiuta della sfida che il passato rinnova al nostro presente.
Il nazionalsocialismo richiede quindi
un supplemento d’indagine legato a quegli ambiti disciplinari, come la
sociologia, la psicologia collettiva e, soprattutto, l’antropologia che meglio
possono sondare aspetti della duplicità del carattere umano così come della
struttura dell’agire collettivo. Questa sensibilità interdisciplinare deve
accompagnarci ogniqualvolta ci approssimiamo allo studio e alla comprensione di
tale fenomeno così come, in particolare modo, dei suoi frutti più velenosi e
feroci, i campi di concentramento, i campi di sterminio e le deportazioni. E
questo sia per evitare frettolose definizioni e compiaciute generalizzazione,
che nulla possono aggiungere al già faticoso lavoro di interpretazione di
quanto semplice non è per sua stessa natura, sia
per cogliere l’intreccio, in sé non facilmente districabile, tra il giudizio
di fatto e la formazione di un’opinione di valore sulla radice di quegli
accadimenti. Questione, quest’ultima, che quei “perché?” di cui si
diceva all’inizio richiamano inesorabilmente, sempre e comunque. Poiché
dietro la domanda di dati si cela l’intendimento implicito di poter disporre
di significati utilizzabili per la costruzione di un giudizio proprio.
2.
I fatti e la loro trasposizione
Approcciandoci agli eventi dobbiamo quindi considerare due aspetti, non sempre sovrapponibili ed intercambiali ma spesso confusi, e volutamente:
1) l’esperienza fattuale, ovvero l’insieme dei dati considerati oggettivi, incontrovertibili nella loro esistenza, che possono essere resi propri in quanto appartenenti ad una consapevolezza di gruppo ma della cui materialità sono solo i protagonisti del tempo ad avere una piena cognizione;
2) la loro trasposizione nella memoria collettiva attraverso i resoconti e l’assunzione, per parte di una comunità, della loro esistenza come fattore rilevante per sé medesima, per il suo cammino, il suo percorso storico.
Sono due facce della stessa medaglia ma, come tali, anche due momenti distinti, separati. Sono esperienze diacroniche, che avvengono in ambiti cronologici differenti. La prima concerne il passato in quanto tale, la seconda attiene al presente. Nella prima si colloca ciò che è stato, nella seconda ciò che è. Quando si fa storia s’intende la ricostruzione della prima attraverso il filtro della seconda. Non tutti, tra quanti fanno, professionalmente o meno, esercizio di giudizio storico, sono disposti a riconoscere le implicazione che questo rapporto richiama, ma proprio in virtù dell’esercizio di obiettività – che nel campo delle discipline umanistiche è essenzialmente uno sforzo di adesione ad alcuni criteri e metodi operativi comunemente condivisi, non un percorso già scritto – va detto che vi è un margine di oscillazione rispetto, si badi bene, non ai fatti in quanto tali ma al giudizio di priorità da dare riguardo ad essi. Come si avrà modo di dire ancora, la vicenda della percezione collettiva del fenomeno delle deportazioni ruota intorno a tali variazioni. Non è mai stato un fenomeno unitario ma ha subito gli effetti delle stagioni culturali dominanti, soggiacendo agli equilibri tra giudizi e opinioni che di volta in volta andavano formandosi. Espressione, questi ultimi, di atteggiamenti morali e predisposizioni intellettuali, oltreché di scale di rilevanza socioculturali, che sono andate anch’esse mutando con il trascorrere del tempo.
Non è quindi neutro, rispetto agli equilibri interni di un gruppo che si interroga sul cammino intrapreso, il voltarsi indietro e il porsi delle domande sulla propria esistenza. Ci si pone quesiti su di sé quando si è consapevoli d’essere sufficientemente maturi per offrire una risposta. E quand’essa non è vissuta come un evento destabilizzante, semmai come un conforto alla propria conquistata autonomia. Un bambino non si chiede qual è il suo proprio passato, poiché non lo ha, perché non dispone delle capacità, né delle ragioni, per porsi certe domande e, soprattutto, poiché non ha autonomia alcuna rispetto ai suoi genitori, dai quali dipende materialmente ma anche moralmente. Semplicemente non gli attengono certi ordini di considerazioni. Ma quella stessa persona, una volta cresciuta, se ha coscienza del proprio sé, tornerà ripetutamente sui passi fatti e sui trascorsi. Il suo orizzonte di vita ha tanto più senso se si riempie della cognizione di ciò che fu.
Come per i singoli, anche per gli aggregati comunitari – associazioni, istituzioni, società – c’è un tempo dell’inconsapevolezza ed uno del ricordo. L’esercizio del secondo è un diritto, non un dovere, che si matura sulla propria pelle, sulla scorta di quella grande nutrice dell’umana esistenza che è l’esperienza. Esperienza vuole dire capire che esistono dei limiti e dei vincoli, così come delle risorse, all’operato proprio. In altri termini, significa riconoscere l’esistenza di un universo di soggetti che differisce da sé, senza per questo sentirsi ridimensionati né, tantomeno, violati nella propria identità. Implica la vocazione allo scambio, al confronto con le esperienze - le storie e le memorie per l’appunto - altrui. E’ il passaggio dall’infanzia adamitica ed edenica (priva di passato) alla consapevolezza del transitare del tempo, senza che quest’ultimo sia letto con una sola chiave, quella della corruzione dello spirito. Il fare, e raccontare, la propria storia è allora liberarsi dalla paura di avere una storia. Non è un gioco di parole; è invece l’unico dato che regge alla prova dei fatti.
E quali furono i fatti che interessano al discorso che si va facendo? Senz’altro il viluppo di eventi che agitarono la scena europea tra il 1933 e il 1945. Di essi ci è dato cogliere gli aspetti più significativi non in quanto fenomeni in sé compiutamente interpretabili ma per le tracce che possiamo raccoglierne attraverso le fonti che abbiamo a disposizione. La cognizione di ciò che fu è sempre mediata dalla figura o dalla circostanza che ci inducono a condividere l’esperienza pregressa. Costruiamo il nostro sapere non perché abbiamo convissuto le altrui vicende bensì poiché siamo i destinatari interessati di una comunicazione per parte di chi già sa (la fonte, ovvero il testimone, lo studioso, il narratore e così via): comprendiamo nel senso che condividiamo, che vogliamo conoscere. Ciò implica la cognizione della profondità, della vastità del passato e, quindi, dei tempi di un futuro che ci attende. Condividere una storia, quindi, non vuol dire riviverla integralmente bensì ricostruirla alla luce delle proprie esigenze. E comprendere significa “trattenere a sé”, appropriarsi razionalmente ma anche e soprattutto emotivamente, di particelle, tracce dell’esperienza altrui, immedesimandosi in esse. Facendo ciò alcune cose si mantengono ed altre si disperdono.
Le motivazioni per cui si rende testimonianza variano da persona a persona e da contesto a contesto. In linea di massima sono il prodotto di una vocazione soggettiva che si incontra con un percorso collettivo: il secondo rivela la disponibilità ad incorporare la prima facendosi carico di quanto va dicendo, dei suoi contenuti che assumono un significato presente. Così, e attraverso l’opera di filtro esercitata dall’attivazione delle metodologie, proprie alle discipline storiche, si costruisce la storia intesa come orizzonte di senso condiviso. Oltre che ad un complesso di avvenimenti o di date, si ha qui a che fare con un significato attribuito agli stessi. Ma tale significato, come si vedrà nelle righe successive, non è certo che rimanga uguale a sé sempre e comunque, essendo soggetto ai mutamenti ai quali è sottoposto dall’evoluzione del pensiero e delle sensibilità collettive.
E così si entra nell’ambito del secondo caso, la trasposizione, di cui si faceva accenno precedentemente. Anche qui la questione è parimenti complessa poiché richiama ulteriori elementi, che entrano a viva forza nel gioco. Si tratta dell’aspetto delle rappresentazioni pubbliche che si fanno o si danno di ciò che è avvenuto. In altri termini, se nel caso precedente il soggetto è colui che ha vissuto l’evento – il testimone – così come il fatto stesso, qui si è nel campo di ciò che attiene le cosiddette politiche della memoria che ogni nazione ed ogni comunità pongono in essere nel corso del tempo. Ciò richiama un insieme di atteggiamenti, mutevoli in base alle epoche considerate, che implicano un giudizio di rilevanza sui propri trascorsi. Più che mai la memoria si accosta allora all’oblio. Diversi sono i giudizi di valore o gli approcci che si possono fare propri sulla scorta di quelle che sono le esigenze – culturali, morali, politiche, civili e così via – del momento. Diverse sono soprattutto le priorità sociali che inducono a privilegiare un certo tipo di narrazione rispetto ad un’altra. E quando si dice ciò non si intende affermare che a seconda delle convenienze si reputa che una serie di fatti sia avvenuta oppure no. Piuttosto si constata che la loro considerazione pubblica – ovvero il giudizio di valore che di essi si dà e la propensione a farne oggetto di comunicazione nei discorsi di senso comune – varia sulla scorta delle diverse stagioni culturali e della loro prevalenza. Da questo punto di vista la memoria del passato è sempre selettiva. Si ha spazio per ricordare qualcosa poiché si può dimenticare altro. E se il ricordare è una esigenza di condivisione e comunicazione, il dimenticare spesso corrisponde ad una strategia di sopravvivenza. Non infrequentemente il dolore può essere tale da arrivare a schiacciare chi se ne fa portatore. Ed appartiene allo spirito umano il bisogno, comprensibile, di evitare la cognizione di ciò che fu se questa è fonte di un dissidio interiore inaccettabile e irrisolvibile.
La vicenda delle deportazione e dei campi, per essere adeguatamente compresa, va inquadrata all’interno di questa cornice. Più che mai qui non si tratta di un esercizio passivo, al quale il testimone si presta per un pubblico di fruitori indifferenti. Narrare l’abominio della sofferenza e del dolore, la tragedia dello sterminio come delle violazioni, l’infamia del male e della morte della speranza – poiché a ciò dovevano corrispondere le strutture concentrazionarie – non è attività di facile esecuzione. Bruno Bettelheim, psicoanalista di fama, internato come politico, ha scritto nei suoi saggi parole inconfondibili sul fosco panorama che faceva da orizzonte quotidiano per quanti erano, insieme a lui, impegnati a combattere una battaglia per la sopravvivenza che non concedeva sosta alcuna. Ed ha anche reso conto di come questa lotta non unisse bensì dividesse i deportati. Un elemento in più per rendere ulteriormente dolenti e stonate le note che si vogliono suonare su di una partitura infelice. Ed evitare, segnatamente, i resoconti apologetici ed eccessivamente edificanti di una vicenda terribile, dove si misurarono gli estremi, in un senso e nell’altro, dello spirito umano.
Spesso ci si rende conto di non avere neanche un linguaggio appropriato per definire ciò che in quei luoghi avveniva. Le analogie con la vita quotidiana di ognuno di noi, d’altro canto, sono di scarso significato, se non equivoche e soggette a fraintendimenti. Ma come farsi capire se non usando le parole abituali? Pietro Caleffi, intitolò una sua significativa memoria dell’esperienza dell’internamento in un lager con le parole “si fa presto a dire fame”.
Tuttavia le difficoltà non pertengono al solo testimone o a colui che fa resoconto della sua esperienza o di quella altrui; sono proprie anche agli uditori, non necessariamente propensi a farsi destinatari di una comunicazione inevitabilmente angosciante e ansiogena. E’ nella natura umana rifuggire ciò che sembra evocare gli spettri del passato sopprimendo le speranze del futuro. In fondo, a ben pensarci, anche questo è un lascito del sistema concentrazionario: intimidire chiunque per il solo fatto di richiamare un nome, quello di Auschwitz, un toponimo che ha assunto significati quasi universalmente riconosciuti.
Esiste allora un triplice livello problematico: la memoria pubblica, lo statuto del testimone e il lessico con il quale si racconta quel passato.
La memoria pubblica richiama la propensione a capire e ad accettare le storie estreme, inevitabilmenti discrasiche e confliggenti con una visione del mondo che si vorrebbe informata a principi di progettualità e speranza. Frequentemente si rifiuta l’inaccettabile. I lager erano tali. Da ciò possono derivare ritardi, o peggio ancora, omissioni riguardo ad eventi e condotte dai risvolti così tragici quali furono le storie del regimi totalitari e delle deportazioni. Per cogliere il perché di una narrazione collettiva che per molto, troppo tempo ha indugiato nel fare oggetto del proprio discorso quello che era avvenuto in quei luoghi, bisogna confrontarsi con l’asimmetria che sussiste tra i fatti pregressi e il bisogno di dimenticarli per proseguire innanzi. Su questo punto si tornerà di qui a non molto.
Lo statuto del testimone evoca invece il ruolo della testimonianza stessa e, nell’epoca che va ad inaugurarsi, con la morte di coloro che vissero tali esperienze ed il passaggio del lascito conoscitivo agli storici, la funzione pubblica che i primi ma soprattutto i secondi devono assolvere nella formazione di una coscienza collettiva capace di evitare gli abomini del passato recente. Poiché ciò con cui si avrà a che fare, d’ora innanzi, non sarà più la consapevolezza della materialità di certi eventi ma la necessità di gestire le immagini e le rappresentazioni relative ai trascorsi.
Il lessico è, da ultimo, il nocciolo della questione relativa ad un linguaggio capace di formare - oltreché di informare - le giovani generazioni ad una prospettiva di vita e, più in generale, di permettere la trasmissione intergenerazionale dei saperi e delle emozioni.
3.
Le diverse stagioni di una storia comune
In questo repertorio di elementi si possono
quindi inserire le diverse stagioni relative alla ricezione
pubblica delle deportazioni, ovvero al loro inserimento nella coscienza
collettiva. L’argomento varrebbe da sé una trattazione a parte ma, ai fini
dell’economia del discorso che si va facendo, può essere ricondotto a tre
scansioni, al contempo cronologiche e logiche.
1. Vi fu una prima fase, tra l’immediato dopoguerra e i primi anni sessanta, in cui il discorso relativo ai campi di concentramento, allo sterminio razziale e alle deportazioni, ebbe ben poca ospitalità tra le opinioni correnti. L’uscita dall’esperienza bellica, l’opera di ricostruzione, il desiderio di lasciarsi alle spalle il passato erano elementi prevalenti rispetto a qualsiasi altro ordine di considerazioni. A ciò si sommavano altri fattori, a forte incidenza, come l’immagine eroica dei combattenti – militari alleati, truppe sovietiche, partigianato - che si prediligeva, rispetto a qualsiasi altra esperienza pregressa. La figura del deportato incarnava un’idea assai poco virtuosa e gloriosa del ruolo svolto da certuni nel conflitto appena trascorso: perlopiù dei civili, non propensi a prendere partito, trascinati loro malgrado in un confronto e costretti ad una condotta avvilente, incapaci di reagire. In sostanza, essa assumeva in sé una serie di rappresentazioni negative, incoerenti con l’ideologia dominante di comunità e soggetti costruttori del proprio destino attraverso l’azione, fors’anche essa armata. Ad esempio, all’interno del costituendo stato d’Israele il gran numero di scampati ai lager che vi confluirono non andarono a costituire una gruppo a sé della nuova società che si stava strutturando. Soprattutto, non avevano voce e non li si intendeva ascoltare. A loro tutto poteva essere concesso come individui ma nulla come corpo sociale. Nel secondo caso addirittura non esistevano. L’essere stati deportati non dava identità, non era un fattore di considerazione sociale, non invitava gli interlocutori ad un surplus di attenzioni, così come invece poi avverrà nei decenni successivi.
C’erano, tra quanti provenivano da uno dei tanti campi, coloro che si coprivano costantemente la matricola tatuata a fuoco sul braccio sinistro; chi se la faceva asportare chirurgicamente; chi affermava qualcosa ma sommessamente ed eufemisticamente; chi negava recisamente e così via. In generale prevaleva la propensione a non dire e a non ascoltare. Il sentimento dominante era la vergogna per qualcosa che era vissuto come una sorta di colpa personale, e non come il prodotto di una violenza di stato. E sé è vero che nel 1953 Israele istituiva, con una apposita legge, il primo memoriale della deportazione, lo Yad Vashem, nei pressi di Gerusalemme, è ancor più vero che la mitologia nazionale di riferimento continuava a prediligere la valorizzazione dell’immagine dell’ebreo cittadino del nuovo stato come quella di un “uomo nuovo” capace di difendersi da solo, costruttore della sua storia, facitore del proprio destino. Tutto l’opposto di quella che è la spettralità circondante l’esperienza delle deportazioni, escluse quindi dal novero dei “miti di fondazione” della giovane nazione. L’ideale sionista presupponeva un soggetto attivo e fattivo; gli ebrei internati nei campi, invece, erano visti come figure di “perdenti”.
Va aggiunto che, al di fuori di Israele, molti gruppi che avevano subito i rigori della repressione nazifascista dovevano ricostruire le proprie fila, o ponevano riparo alle offese subite individualmente, e ben poco di quel che era successo avrebbe potuto fungere da fattore di promozione di un qualsivoglia progetto di rinascita. Il ricordo, da questo punto di vista, ostacolava la propensione collettiva verso il futuro.
Da ultimo non si dimentichi che il quadro internazionale che si era strutturato ed articolato in un rigido bipolarismo, così come il bisogno di ridare fiato ai paesi sconfitti, a partire dalla Germania, nell’ottica di un riarmo generalizzato, ostacolavano il rimemorare le vicende occorse poco tempo prima. L’imbarazzo per quanto era avvenuto era moneta comune ed il silenzio ne garantiva la sublimazione.
2. La seconda fase, che si apre con gli anni sessanta e si conclude alla fine del decennio successivo, celebra il ribaltamento di alcuni paradigmi precedenti e segna l’assunzione di una diversa percezione della vicenda delle deportazioni. A grandi linee si possono richiamare due ragioni per spiegare il perché di questo mutamento:
a) lo sviluppo in occidente di un trend socioculturale oramai sganciato dai ricordi della guerra passata e maggiormente propenso a considerare la storia recente con attenzione diversa rispetto al decennio postbellico. Il passaggio ad una cultura del consumo e il fenomeno del boom economico, la forte urbanizzazione e scolarizzazione di massa, l’articolarsi di movimenti politici e sociali basati su programmi di riforma radicale delle società a capitalismo avanzato, l’adesione a valori cosiddetti postmaterialistici, in poche parole l’articolarsi di una concezione del mondo basata non più sui bisogni tipici di comunità uscite da una guerra ma legata ad una prospettiva di trasformazione delle società nazionali comporta, tra le altre cose, anche una rivalutazione del “ruolo dei vinti e delle vittime”. Da quest’ultimo punto di vista, sia la guerra nel Vietnam - con il suo carico di opposizione per parte di consistenti componenti del mondo giovanile – sia lo sviluppo di una subcultura alternativistica (i “figli dei fiori” ed altro ancora) incentivano una riconsiderazione degli anni quaranta, ora non più letti solo con le lenti del conflitto e mediati dalle figure dei combattenti ma considerati sotto la nuova luce della storia di coloro che furono travolti dalla guerra in quanto, per l’appunto, vittime;
b) il nuovo atteggiamento assunto dalla dirigenza israeliana, ed in particolare da David Ben Gurion – l’allora primo ministro – nei confronti della storia di quegli ebrei che furono perseguitati in Europa dai regimi nazista e fascisti. Nel 1961 si svolge a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann. La sua eco è internazionale e, se da un lato, funge da normalizzatore per gli altrimenti difficili rapporti tra stato d’Israele e Germania, dall’altro introduce, prima tra gli ebrei poi in tutta la comunità occidentale, la consapevolezza che la figura del deportato non deve più essere esclusa dal piano prospettico del giudizio storico né, tantomeno, da quelle che sono le simbologie di riferimento della cultura nazionale. A ciò si accompagnano le vicende che vedono gli israeliani stessi coinvolti in più guerre tra cui quella dello Yom Kippur, nell’ottobre del 1973, dove la percezione del rischio di vedersi “ributtati a mare” si associa alla memoria delle persecuzioni e delle violenze subite. L’attenzione verso quello che impropriamente viene definito l’“Olocausto”, sulla scorta della terminologia anglosassone, lievita di pari passo con il suo assurgere a nuovo paradigma della cultura condivisa.
Negli altri paesi cresce l’interesse per la storia dei campi di concentramento che diventano oggetto di pubbliche riflessioni. Soprattutto se ne coglie la valenza politica. La storia delle deportazione è così incorporata all’interno del più generale discorso sulla lotta antifascista, contro la destra radicale europa, nel passato come nel presente. E l’”egemonia” dei deportati politici, nel discorso pubblico europeo e, segnatamente di quello italiano, che si stabilisce in quegli anni, fa il paio con i destini, dei partiti che ne hanno recuperate le idealità. Ancora scarsa o nulla è la considerazione collettiva per quei soggetti che furono perseguitati in quanto appartenenti a minoranze, non importa quali.
A suggello di questa stagione si pone il successo del serial televisivo “Holocaust”, mediocre drammone americano di grande risonanza, teletrasmesso anche nel nostro paese alla fine degli anni settanta con una grande partecipazione di pubblico.
3. La terza fase, apertasi con i primi anni ottanta e a tutt’oggi in via di evoluzione, è contrassegnata da una crescente disponibilità di attenzioni verso quell’oscuro continente – il lager – e i suoi abitanti – i deportati. In quest’ultimo caso sono due i fattori da considerare:
a) la notevole attenzione e la corposa concentrazione del discorso pubblico sul tema concernente le deportazioni razziali, sopravanzanti, nell’immaginario collettivo, altri fenomeni coevi. Il rischio al quale ci si espone, sul lungo periodo, è l’effetto di saturazione che deriva dall’inflazione e dalle ridondanze;
b) lo strutturarsi, ancora timidamente, di narrazioni relative a quelle categorie di perseguitati e internati per motivi eccedenti o esulanti dalle ragioni di opposizione politica o di appartenenenza etnico-razziale. La storia dei “triangoli viola” si inserisce in questo ultimo contesto. Da poco meno di dieci anni si è attivato un percorso, ancora a tratti incerto, sulla storia dei Bibelforscher sotto il regime hitleriano. Ancor più recenti sono le riflessioni a tal riguardo nel nostro paese. Una storia generale rimane ancora da scrivere, consegnata, com’è a tutt’oggi, alle occasionali testimonianze di quanti la vissero in prima persona. Un lascito da raccogliere, quindi.
D’altro canto in Italia è solo nel luglio del 2000 che viene istituita, con apposita legge, la “Giornata della memoria”, celebrantesi il 27 gennaio di ogni anno, ricorrenza dell’apertura dei cancelli di Auschwitz per parte dei liberatori sovietici.
Un percorso tracciato con mano ancora troppo fragile, insomma, ma nel solco del quale si può sperare di costruire una consapevolezza collettiva di ciò che, se rimane nella sua mera fattualità esperienza di alcuni, è nella memoria insegnamento per tutti.
Claudio Vercelli
Claudio
Vercelli, storico e pubblicista, è ricercatore presso l’Istituto di studi
storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto di ricerca e formazione
sugli “Usi della storia, usi della memoria”.
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