Triangolo Viola - Il sito

La natura dell'oppressione nazista e fascista contro i testimoni di Geova in Italia e in Germania e la loro deportazione.

Considerazioni di metodo e di contenuto.  Estensione dell'intervento di  Claudio Vercelli

 Università degli Studi di Milano 05 febbraio 2002


Claudio Vercelli . Incontro "I dimenticati dell'olocausto." Universita La Sapienza - Milano
Claudio Vercelli


MILANO - Si è tenuto il 5 febbraio scorso presso l’Università degli Studi di Milano, un incontro dal tema: <<Gli Olocausti dimenticati>>. Una giornata di studi per approfondire la persecuzione nazista delle minoranze. All’incontro, patrocinato dal Comune e dalla Provincia di Milano e dall’Istituto di studi storici G. Salvemini di Torino, hanno partecipato due docenti di Storia Contemporanea dell’Università degli Studi di Milano, il prof. Alfredo Canavero e il prof. Ivano Granata. Tra i relatori c’erano anche il prof. Claudio Vercelli, storico e ricercatore dell’Istituto di studi storici Salvemini di Torino e il prof. Renato De Santis ministro di culto dei testimoni di Geova.  
MILANO - Si è tenuto il 5 febbraio scorso presso l’Università degli Studi di Milano, un incontro dal tema: <<Gli Olocausti dimenticati>>. Una giornata di studi per approfondire la persecuzione nazista delle minoranze. All’incontro hanno partecipato due docenti di Storia Contemporanea dell’Università degli Studi di Milano, il prof. Alfredo Canavero e il prof. Ivano Granata. Tra i relatori c’erano anche il prof. Claudio Vercelli, storico e ricercatore dell’Istituto di studi storici Salvemini di Torino e il prof. Renato De Santis ministro di culto dei testimoni di Geova.  


1. I termini della questione

Si parta da un dato che non è per nulla scontato nella cognizione collettiva del fenomeno delle persecuzioni naziste e fasciste delle minoranze: l’avversione dei regimi tedesco e italiano contro i testimoni di Geova (1), ancorché fatto sistematico, tradottosi in una serie di atti di deliberata violenza e repressione di tale Congregazione religiosa, è a tutt’oggi una pagina scarsamente conosciuta dai più e ancor meno visitata dagli studiosi. Sul perché di questa autentica rimozione si possono avanzare solo ipotesi, ed anche sufficientemente arbitrarie – poiché non supportate da riscontri precisi – ma informate, almeno nella loro formulazione, a obiettivi criteri di indagine e ad un intendimento sinceramente non partigiano. In quanto, ed è questa una premessa in sé purtroppo oggettiva, si è in presenza di una deliberata mancanza di riguardo ed attenzione verso una vicenda che coinvolse migliaia di persone e non di una disattenzione occasionale. Cerchiamo allora di identificare i motivi o comunque le presunte ragioni per poi procedere ad una prima, sommaria definizione del fenomeno persecutorio:

a) senz’altro sussiste una scarsa vocazione di questa denominazione cristiana a farsi oggetto di biografia di gruppo, di identificarsi come soggetto storico e quindi di storicizzare la propria esperienza. Sulla natura e sulle ragioni di questo atteggiamento le ipotesi possono essere le più diverse ma, a parere dello scrivente, si raccordano alla giovane età della Congregazione stessa e all’impianto teologico che ne informa l’operato. Con la dovuta cautela del caso va rilevato che la proiezione verso l’attività di proselitismo, l’attenzione verso la costruzione di un mondo ispirato ai dettami della parola divina - così come desunta dalla lettura che di essa è fatta attraverso la Bibbia e i documenti prodotti all’interno dell’organizzazione - rinviano i suoi aderenti verso mete orientate al futuro. Scarsa attenzione è stata dedicata alla dimensione identitaria intesa come prodotto di un percorso storico, portato di una riflessione sulle proprie radici. Peraltro, come già si è detto, giovani sono queste ultime poiché risalenti alla seconda metà dell’ottocento. Ma una ricognizione, anche critica, sul proprio passato, pur con tutte le implicazione ch’essa si porterebbe con sé, potrebbe contribuire a far luce sul fenomeno delle persecuzioni e della deportazione dei testimoni di Geova permettendo alla società di farsene carico come una pagina senz’altro nera ma la cui memoria non può essere omessa. Peraltro c’è chi, soprattutto da fonte cattolica, ha ripetutamente accusato la Congregazione di adottare un atteggiamento esattamente opposto a quello che andiamo indagando, ovverosia di usare e aver usato il vittimismo come strumento di autopromozione e come chiave strategica del suo operato. Nei confronti di Joseph Rutheford, presidente e guida carismatica dell’organizzazione dei Testimoni di Geova fino agli anni del secondo conflitto mondiale, l’accento è particolarmente polemico. D’egli si dice che abbia incentivato, irresponsabilmente, una “vocazione al martirio” dei suoi confratelli e discepoli. Un esempio a tal riguardo, tra i tanti, è quello offertoci da Bernard Blandre, uno dei pochi autori per parte cattolica di una storia della denominazione, che afferma che “le pubblicazioni geoviste sono piene di informazioni sulle persecuzioni sofferte [da parte dei testimoni] e che costituiscono certamente una realtà storica. Ma esse dimostrano anche chiaramente […] che esse furono il risultato di una politica di deliberata provocazione contro le Chiese e gli Stati per creare dei martiri. L’obiettivo pubblicitario era raggiunto: ogni nuovo caso provocava articoli sulla stampa, dava credibilità ai Testimoni di Geova per ogni successo giuridico riportato, provocava proteste contro la persecuzione di cui erano vittime e attirava la simpatia sulla causa da loro difesa; faceva anche passare i loro avversari da ‘persecutori’, disponendo così l’opinione pubblica a criticare lo Stato e le Chiese. Era l’applicazione consapevole della strategia ‘provocazione-repressione-solidarietà’”(2). La sostanza, sia pur implicita, di tale argomentazione è che i cosiddetti “geovisti” – termine già di per sé dispregiativo – sarebbero una sorta di formidabile macchina di pubbliche relazione il cui obiettivo dichiarato (la crescita del culto) sottintenderebbe ben altri intendimenti, assai poco etici ma senz’altro molto “mondani”. E’ la classica accusa che viene mossa alle cosiddette “sette”, perlopiù giudicate come entità contrapposte alle “chiese”, intimamente vocate le prime al sotterfugio e alla manipolazione dei seguaci di contro all’onestà delle seconde, certificata dall’ufficialità che sarebbe loro riconosciuta dalle autorità civili. Una dicotomia ideologica, questa, tipica del dibattito europeo ma non necessariamente di quello americano (3).Ora, non è nelle competenze dell’estensore di queste righe il formulare un giudizio di valore, prendendo partito per l’uno o per l’altro. Non sfugge allo studioso di questi fenomeni l’implicita fascinazione che il sentirsi destinatari di pratiche oppressive può avere nella costruzione di una identità collettiva, declinata anche sul piano della cognizione del dolore sofferto e proposta all’altrui attenzione come elemento per la contrattazione del proprio ruolo sociale (4). Tuttavia, ad onore del vero, va rilevato che la posta in gioco in un tal genere di polemica è il controllo in chiave egemonica del capitale simbolico che è costituito dal discorso religioso. E, conseguentemente, il potere che da esso ne deriva. Fin troppo ovvio che le prelature e le ierocrazie dei culti cristiani maggioritari vedano l’affermarsi di una denominazione diversa dalla propria come una minaccia e che la fronteggino anche attraverso atteggiamenti delegittimanti. Più che di concorrenzialità teologica si deve qui parlare di lotta per la riaffermazione della propria centralità istituzionale, percepita come a rischio in ragione dell’altrui presenza. I testimoni di Geova non sfuggono a questa stringente dialettica fungendo da competitori nei confronti delle chiese dominanti. Ad essi, quindi, è fatto divieto dai detrattori di manifestarsi con la loro propria storia.
Si rilegga con attenzione il passo di Blandre: viene riconosciuta la realtà delle persecuzioni ma, secondo un vecchio cliché in uso in tante circostanze, se ne imputa la responsabilità alle vittime, e neanche troppo indirettamente. Una sorta di cortocircuito interpretativo che si innesca ogni qualvolta, non potendo negare l’evidenza dei fatti, si ascrive la loro origine alla condotta di chi ha subito le vessazioni delle circostanze. Nel caso della deportazione dei Bibelforscher, vi sarebbe quindi una implicita colpa da parte di questi ultimi nella misura in cui non accettarono le imposizioni del regime nazista, prima fra tutte quella di sciogliersi come Congregazione. In sostanza si attribuisce ad essi la “provocazione” di aver continuato ad esistere, capovolgendo il rapporto causa-effetto: è così la vittima a
portare il fardello morale della persecuzione poiché, continuando a manifestare la sua soggettività, dà “ragione” al suo oppressore nelle scelte liberticide che quest’ultimo pratica.

b) La storia delle persecuzioni è vissuta e narrata, nelle sue innumerevoli trasposizioni, come storia collettiva. L’approccio che la storiografia, così come lo stesso senso comune, offrono alla questione privilegia ciò che accomuna gli appartenenti ad un gruppo, fatto oggetto di pratiche vessatorie, rispetto a quegli approcci che vertono sulla soggettività. Questo genere di storia risulta più intelligibile se costruita su macrocategorie. Solo nel corso degli ultimi vent’anni si è preso in considerazione l’aspetto individuale di quelle vicende. Poiché, a ben vedere, a subire gli effetti delle deportazioni non erano tanto i membri di più collettività ostili al nuovo ordine hitleriano – e come tali spesso esistenti solo nell’immaginario dei nazisti - quanto singoli individui, di volta in volta qualificati come ebrei, politici, slavi, omosessuali e così via. E se l’ascrizione ad ognuna di queste categorie non era secondaria rispetto al destino di coloro che venivano internati, in quanto per ognuno d’essi le probabilità di sopravvivere e, correlativamente, di morire, mutavano ed in proporzione rilevante in base al gruppo d’appartenenza, rimane il fatto che i destinatari delle misure oppressive erano donne e uomini nella loro singolarità, al di là della categoria nella quale erano inquadrati al momento dell’ingresso nel lager. Nel caso della repressione del culto dei testimoni di Geova manca ancora del tutto non solo la storia comune ma anche la raccolta delle memorie individuali dell’esperienza concentrazionaria (5). A pesare in tal senso è il giudizio nettamente ideologico che viene formulato sul gruppo in quanto tale, fonte di contrastati sentimenti alla luce dei quali orientare le valutazioni anche su quel passato che lo stesso ha condiviso insieme ad altre categorie di perseguitati e, con esso, sulle storie dei suoi aderenti fatti oggetto delle violenze dei regimi nazista e fascista. La vicenda della deportazione dei triangoli viola non è incorporata nella storia comune (6) poiché il passato di dolore è letto alla luce del presente, inficiato ed offuscato dalle persistenti polemiche dei giorni nostri. In questo modo, alla scarsa propensione propria al gruppo stesso di raccontarsi si somma il biasimo o comunque la diffidenza di quei non pochi che ad esso sono esterni, generando una strategia dell’oblio che è funzionale alla negazione di un diritto alla memoria che invece dovrebbe essere parte costitutiva della identità della Congregazione, come dei suoi membri, ma anche della comunità umana in quanto tale.

c) Per i testimoni di Geova si pone tuttavia un problema di fondo, non facilmente risolvibile: quale deve essere il rapporto con la storia in quanto tale, non solo la propria. Una costruzione teologica che privilegia l’escatologia finalistica e avventista, consegnando il rapporto con la sfera del politico ad una benigna neutralità, li condanna inevitabilmente a doversi misurare, senza opportuni strumenti di difesa, con le ostilità che quest’ultimo può manifestare in determinati frangenti storici. Il caso del comportamento degli “studenti biblici” tedeschi negli anni trenta è emblematico: dopo un tentativo di ribadire che le proprie ragioni non erano necessariamente in contrasto con gli interessi del regime furono costretti dall’operato di quest’ultimo ad assumere una posizione ufficiale – la Convenzione di Lucerna del 1936 -  che di fatto comportava una precisa presa di posizione dagli immediati riflessi politici. E se il successivo comportamento dei Bibelforscher non può essere letto ed interpretato come episodio a sé nel più generale fenomeno delle Resistenze politiche all’oppressione nazifascista operante in Europa, tuttavia di una forma di opposizione pur si trattò, sia pure dai connotati civili, in quanto fondata sull’avversione, religiosamente motivata, ad un sistema che veniva considerato come empio e satanico. In questo modo la propensione ad astenersi dall’esercizio del giudizio sull’altrui operato mondano veniva temperato dalla necessità di confrontarsi con l’incalzare degli eventi. Ci si può sottrarre ad alcune prescrizioni del potere, non alla storia in quanto prodotto dell’agire umano. Quel che rileva ai fini del discorso che si va facendo non è una presunta contraddizione teologica – si è già detto che non è materia di queste riflessioni – quanto l’analisi dell’evoluzione dei fatti che, nella loro inesorabilità, chiamano le persone a delle scelte e ad atti di responsabilità le cui ricadute si misurarono non solo tra i membri della comunità religiosa ma anche sulla società circostante. Ciò, tuttavia, rende ancor più dolorosa l’indifferenza con la quale questa ripagò quanti sacrificarono la propria vita per l’affermazione di una identità morale e spirituale.

d) Come si parla di uomini e donne deportati così si deve parlare di deportazioni al plurale, tante quante sono le persone che subirono questo triste destino. All’interno del circuito dei campi di concentramento furono raccolti milioni di individui delle più diverse origini e per i più disparati motivi. Il dramma che coinvolse ognuno d’essi, ancorché connotato da una radice unica, quella delle politiche d’oppressione e sterminio naziste e fasciste, va identificato ed indagato con assoluto rispetto, evitando la costruzione di gerarchie tra sofferenze e dolori, poiché moralmente sono alla pari quelle vissute dagli uni così come quelle degli altri. Sempre e comunque si ha a che fare con corpi offesi, donne, uomini, anziani, giovanissimi sottratti al loro focolare domestico, ai loro affetti, alla loro quotidianità. Non può essere usata in maniera strumentale, per legittimare primazie di certi deportati su altri, la consapevolezza che i trattamenti riservati dai carnefici alle loro vittime potevano variare sulla scorta del gruppo di appartenenza di queste ultime. E se è senz’altro vero, come peraltro già si è detto, che la probabilità di sopravvivere all’interno di un lager per un deportato razziale si approssimavano allo zero mentre erano decisamente più alte per un testimone di Geova o un “asociale”, ciò non può costituire ragione per un giudizio di valore aprioristico che reputi come degna di considerazione morale solo la prima esperienza e non la seconda. Il concetto che deve diventare predominante rispetto a qualsiasi altra considerazione è che furono degli europei ad essere fatti oggetto di violazioni inaudite e inconcepibili. E ad esercitare tale violenza, totale, su nude vite, indifese, fu un potere terreno, mondano. Insomma, non di un progetto luciferino di trattò ma dell’operato, osceno, di un gruppo di individui che, con il consenso passivo di certuni e l’indifferenza di altri, si adoperò per sconvolgere non solo politicamente ma anche e soprattutto eticamente e demograficamente l’Europa. Intollerabile, per questi signori, padroni assoluti dall’esistenza altrui, la permanenza di qualsiasi forma di presenza umana non conforme ai dettami dell’ideologia totalitaria dalla quale traevano ispirazione. I testimoni di Geova erano considerati un’eresia morale e politica, a partire dal loro professato pacifismo, dal rifiuto di riconoscere in Hitler qualità che non fossero quelle proprie ad un leader politico, dalla costanza del loro credo anche in condizioni avverse. Chi si comportò con rettitudine e in coerenza con i propri principi morali - quando questi sono ispirati da quello che dovrebbe essere un comune anelito all’umanitarismo e alla reciprocità – merita il rispetto della collettività. Non si tratta di esprimere un assenso o un dissenso religioso alla Congregazione in quanto tale – questione che perviene ad un altro ordine di considerazioni, del tutto soggettive – bensì di capire che le vicende dei suoi membri, tanto più nei momenti del dolore e della sofferenza, appartiene ad ognuno di noi, storia di uomini e donne tra altri uomini e donne.

Siamo ancora lontani dall’avere fatta nostra tale consapevolezza. Ed è anche per questo che la storia dell’internamento dei “triangoli viola” ci pare oscura e non indagata. E’ora di muoversi altrimenti, verso un orizzonte prospettico che includa questi fattori, senza condizionarne la loro assunzione a valutazioni estranee ai dati di fatto.

 

2. La natura dell’oppressione

Quali erano i caratteri dell’oppressione fascista in Italia e nazista in Germania   contro i testimoni di Geova? In questa seconda parte dell’articolo se ne richiameranno, in forma del tutto sommaria, gli aspetti più significativi, rimandando ad altri momenti e ad ulteriori occasioni opportune riflessioni, più argomentate. Vanno distinte le esperienze che i membri di tale Congregazione fecero dei due regimi, senz’altro entrambi dispotici e vocati all’oppressione delle minoranze, religiose o non che fossero, ma secondo criteri ed intensità differenti. Inoltre non può essere dimenticata la diversa consistenza dei due insediamenti: nel caso tedesco si parla di non meno di ventimila aderenti al culto; in Italia la cifra non superò mai la soglia dei duecento. Anticipando le conclusioni si può fin da ora affermare che se nel Terzo Reich il destino inesorabilmente assegnato a quanti non si conformavano ai dettami del potere comportò, nel volgere di poco tempo, la reclusione a tempo indeterminato in un campo di concentramento e la eventuale soppressione fisica (7), nell’Italia mussoliniana le misure adottate furono in un primo tempo dissuasive – cioè volte a far desistere con l’intimidazione i membri della Congregazione dal proseguire nell’esercizio delle loro pratiche - e solo successivamente detentive (8). Sia nell’uno come nell’altro caso, tuttavia, le prassi discriminatorie prima, vessatorie e persecutorie poi, seguirono un percorso di radicalizzazione al quale non erano estranei fattori come l’approssimarsi della guerra e il parallelo inasprirsi delle politiche sociali interne ai due regimi. Da questo punto di vista il destino dei testimoni di Geova segue la tendenza dominante adottata nei confronti di quelle categorie considerate come composte da outsider sociali e razziali o costituite da avversari politici (9). L’avversione dei due regimi verso la Congregazione cristiana segue cioè l’andamento più generale, di passo in passo sempre più rigido, adottato anche per altre figure invise al potere. Pur non uniformandosi in tutto e per tutto ad esse, la storia delle persecuzioni subita da questa non può quindi essere disgiunta dall’analisi del capitolo più ampio della repressione poliziesca come strumento di governo all’interno di società la cui matrice politica è autoritaria o addirittura totalitaria.
Detto ciò non va dimenticato che i testimoni di Geova furono l’unico gruppo religioso che si oppose attivamente e sistematicamente al nazismo. Come tali furono fatti oggetto di costanti vessazioni e deportati in virtù della loro appartenenza – peraltro mai negata dai singoli aderenti – alla denominazione. Nei campi di concentramento furono il solo gruppo religioso ad essere identificato con un apposito segno di riconoscimento, il triangolo viola, e sottoposti al durissimo regime d’internamento che costò la vita ad almeno duemila di essi. Peraltro, gli sforzi compiuti dalle autorità per eliminare tale culto fallirono. Nella Germania di Hitler i testimoni di Geova, malgrado i rischi che tale atteggiamento comportava, proseguirono nell’opera di proselitismo. La diffusione delle opere e dei documenti della Congregazione, nel corso del tempo sempre più caratterizzati per la palese avversione al nazismo, proseguì per vie clandestine anche negli anni più bui della storia tedesca (9).
Più analiticamente, per cogliere la natura dell’oppressione della quale andiamo occupandoci, esercitata in Italia come in Germania, vanno considerati due fenomeni specifici:

a)     la presenza nel nostro paese di un culto ufficiale, quello della chiesa romana, riconosciuto dal regime come legittimo interlocutore istituzionale e cofirmatario, nel 1929, di un concordato in virtù del quale gli veniva attribuito un monopolio di fatto per tutto quanto concerneva le questioni relative alle pratiche religiose e all’identità spirituale degli italiani. Con la fine degli anni trenta e con l’adozione delle leggi razziali l’accostamento tra la cosiddetta variante latina della “razza” ariana e il cattolicesimo divenne prassi condivisa. Da queste premesse derivarono nel corso del tempo due effetti: un’accentuazione delle persecuzioni antiprotestanti e la definizione dei culti minoritari come espressioni dell’ “imbastardimento e del meticciato razziale”. Nella Germania di Hitler, invece, il cattolicesimo coesisteva con il protestantesimo in una condizione di precaria sospensione (10). Il regime, fortemente pagano, avrebbe probabilmente regolato i conti con le due chiese a guerra finita. Sta di fatto che nessun altro culto era ammesso.

b)    l’azione del fascismo e del nazismo contro tutti i gruppi non omologati. Quando l’opera di cooptazione ed omologazione all’interno delle strutture dei due regimi risultava impossibile, questi ultimi procedevano alla distruzione delle entità indipendenti. In Italia sopravvisse a tale azzeramento solo l’Azione Cattolica, salvaguardata nelle sue prerogative dal concordato. In Germania tutte le organizzazioni vennero nazificate, nessuna esclusa. Il che comportava l’annullamento di ogni autonomia organizzativa, decisionale e morale, la distruzione delle leadership indipendenti, l’assoggettamento alla volontà dei nuovi signori o, in alternativa, l’eliminazione del gruppo identificato come nemico o alieno.

Questi elementi di cornice vanno poi interpolati con sei elementi che concorsero nella definizione dei testimoni di Geova come avversari dei nuovi poteri:

a)     la propensione della Congregazione al proselitismo diffuso, all’espansione delle sue strutture, alla diffusione del suo credo, all’evangelizzazione in pubblico e alla predicazione di massa, di contro al comportamento più “trattenuto” degli altri culti (le cosiddette “conversioni domestiche”);

b)    l’uso abituale come strumento di informazione, collegamento e proselitismo della carta stampata (libri, opuscoli, volantini), in parte prodotta all’estero: il ricorso a questi mezzi rompeva l’egemonia comunicativa e creava una breccia nel sistema di propaganda dei poteri totalitari;

c)     l’immediata esplicitazione della propria neutralità politica che in Germania si estrinsecò nella Dichiarazione dei fatti del 1933. Lungi dal costituire una garanzia per il regime, semmai inquietò ancor di più i suoi esponenti, decisi a non concedere requie a coloro che in questo modo riaffermavano la volontà di continuare ad esistere come entità indipendente. Inoltre l’apoliticità era intesa non come attenuante ma semmai come aggravante: il fondamento morale e spirituale della propria posizione segnalava l’inconciliabilità con il totalitarismo razziale e antropologico, prima ancora che politico, al quale si informava il nazionalsocialismo come ideologia. La successiva Convenzione di Lucerna del 1936 segnò il passaggio all’opposizione dichiarata e, con essa, il destino dei membri della minoranza religiosa;

d)    l’esistenza di un network organizzativo internazionale, con sede negli Stati Uniti (prima a Pittsburgh poi a Brooklyn) che rendeva sospetti agli occhi dei due regimi la presenza di quello che avvertivano come un “corpo estraneo”, potenziale strumento di penetrazione per parte straniera;

e)     il pacifismo e l’antibellicismo programmatici, inconciliabili con lo spirito militaresco e la vocazione guerrafondaia del nazismo e del fascismo;

f)      la natura intrinsecamente ideologica del conflitto che immediatamente si avviò con il regime nazista: il fatto che fosse totalitario, ovverosia che non tollerasse forma alcuna di opposizione cercando di sovrapporre la sua volontà a quella non solo della società politica ma anche civile, comportò per parte di Hitler il tentativo di fare del nazionalsocialismo una “religione politica”. Il conflitto con la cristianità era quindi nell’ordine delle cose. “I nazisti non avevano intenzione in definitiva di tollerare nessun sistema rivale, politico o religioso…Le opinioni religiose che erano inaccettabili per i nazisti erano identificate costantemente come politicamente sovversive. Come quei preti cattolici che avevano protestato dai loro pulpiti per il programma di eutanasia erano perseguitati per ‘cattolicesimo politico’, così i membri delle sette, negli insegnamenti sulla fine del mondo potevano essere visti come ‘anarchici e bolscevichi’. All’interno dello stato nazionalsocialista ogni questione diventava politica, per cui ogni gruppo di persone che rigettava le differenze razziali e credeva che il sistema di cose politico fosse condannato in senso escatologico diventavano nemici politici” (11).

In Italia, nell’avviare e nel realizzare le persecuzioni, peraltro minuziosissime e decisamente sproporzionate rispetto alla dimensione dell’insediamento dei testimoni di Geova autoctoni, la cui presenza sociale era marginale se non prossima alla più assoluta residualità, concorsero due soggetti istituzionali: il regime mussoliniano, da un lato, e la chiesa cattolica dall’altro. Si può affermare che lo sforzo in tal senso venne, se non concertato, di certo prodotto dall’incontro di due volontà ostili, preesistenti alla loro fusione in un unico intendimento che divenne politica ufficiale. E a tal riguardo entrambi dovettero confrontarsi con un problema di fondo, ovvero l’identificazione e la definizione della natura del “geovismo”, erroneamente attribuito al campo dei culti protestanti. Di volta in volta i membri della Congregazione erano considerati evangelici, pentecostali o avventisti. In altri casi si propendeva, soprattutto per parte politica, all’attribuzione agli stessi di intendimenti ideologici – di radice marxistica – che sarebbero stati abilmente contraffatti sotto la copertura del discorso religioso. Le predicazione dell’egualitarismo e dell’antimilitarismo, l’opzione di diffondere le proprie parole tra persone umili e semplici, lo sforzo di garantire la costanza e la capillarità nell’impegno di evangelizzazione erano visti con profondo sospetto dalla autorità che ritenevano che dietro queste parole potesse celarsi il progetto, per parte socialcomunista, di tornare in auge dopo la sconfitta subita tra il 1922 e il 1926. In più queste osservavano con profonda preoccupazione i legami internazionali e l’origine statunitense della denominazione.

In verità, al di là delle ipotesi avanzate dagli apparati repressivi (non a caso fu l’Ovra, l’Opera Volontaria per la Repressione dell’Antifascismo, la polizia politica per eccellenza del regime, ad essere incaricata di curarsi dell’ “estirpazione della mala pianta del geovismo”) che propendevano per un’interpretazione estremamente radicale e allarmista del ruolo di questa minoranza religiosa, il piccolissimo ed instabile nucleo di adepti, a causa dello stesso dominio clerico-fascista, era impossibilitato a ricevere sistematiche direttive spirituali da un organismo centrale che, a livello nazionale, neanche esisteva e che a livello internazionale, se si fa l’eccezione della Svizzera, era impedito in qualsivoglia comunicazione che non fosse occasionale con i confratelli peninsulari. In Italia, contrariamente alla Germania, si era in presenza di piccole aggregazioni del tutto prive di stabilità organizzativa e, talvolta, anche di una chiara comprensione in campo dottrinale (13). L’azione repressiva costringeva i praticanti ad operare in un ambiente ostile, avversati dal clero cattolico e fatti oggetto di delazioni e denunce. I siti dove avvenivano le occasionali riunioni erano quasi sempre luoghi di fortuna, perlopiù in campagna. Le attività svolte aderivano, inevitabilmente, ai cliché propri alla clandestinità.

L’esercizio repressivo per espletarsi seguì, almeno in un primo periodo, i percorsi tortuosi della diffusione delle pubblicazioni della Congregazione. In questo modo la polizia fascista riuscì a ricostruire luoghi, figure e recapiti del piccolo nucleo di fedeli. Se i Carabinieri Reali e le autorità di Pubblica Sicurezza per un certo lasso di tempo si impegnarono a sospendere gli incontri, laddove questi si verificano, e a diffidare i partecipanti dal continuare a parteciparvi, successivamente l’Ovra, su richiesta delle massime autorità del regime, adottò criteri più rigidi, addivenendo ad una repressione sistematica e spietata. Quest’ultima, come già si è detto, seguì nel corso degli anni il processo di radicalizzazione che Mussolini e il suo entourage politico impressero alla politica italiana, all’esterno come all’interno del paese. Nel marzo del 1932 Il Popolo d’Italia, organo del Partito Nazionale Fascista, pubblicò un articolo su “Il regno di Geova” dove si conferiva all’organizzazione mondiale dei testimoni di Geova e alla sua colonia italiana una connotazione “giudaica”, un fine “bolscevico” e una “stretta alleanza” con “l’alta banca giudaica germanica-americana”. La funzione di queste attribuzioni negative era quella di screditare il gruppo religioso, preparando il terreno per futuri atti di forza. Parimenti il cardinale Ildefonso Schuster si pronunciò contro quella che definiva la “libera propaganda dei protestanti”, rinnovando così l’equivoco che era a monte del giudizio sulla collocazione della Congregazione ma rivelando anche l’intendimento di concorrere, insieme al regime, alla sua repressione totale e definitiva.

Intendimento che trova nel 1934 la sua coerente attuazione quando il fascismo dichiara insostenibile e controproducente l’esistenza di una religione altra che non sia la cattolica romana apostolica. Il principio sotteso era quello di proclamare l’unitarietà di quanto presto sarebbe stato definito come la variante latina della razza ariana: un capo, un popolo, una nazione ed una sola religione. A partire dalla metà degli anni trenta il proselitismo praticato dai testimoni di Geova da problema affidato al controllo e alla repressione delle questure diventa un attentato contro l’integrità della nazione italiana. E nel 1935 il Ministero degli Interni ordina con una circolare di mettere al bando le “associazioni pentecostali” tra cui sono annoverati gli stessi testimoni.

Nel frattempo il clima in Europa andava surriscaldandosi. E’ di quegli anni l’ascesa al potere e il consolidamento in regime del nazismo che procede fin da subito all’aggressione contro quelli che considera i suoi nemici. La cronologia degli avvenimenti ci segnala il susseguirsi, in un moto sempre più accelerato, di gesti ed eventi che travolgono la Congregazione. In Germania le camicie brune nell’agosto del 1933 bruciano le pubblicazioni della Watch Tower mentre nel novembre dello stesso anno molti aderenti al culto vengono arrestati o comunque licenziati dai posti di lavoro per non aver partecipato alle elezioni (il voto, plebiscitario, era divenuto obbligatorio). Nell’aprile del 1935 i testimoni di Geova vengono radiati dalle pubbliche amministrazioni tedesche. Sono inoltre privati del diritto alla pensione e delle tutele assistenziali comunemente riconosciute ai loro concittadini. Il matrimonio con un congiunto aderente alla denominazione può essere causa sufficiente per chiederne l’annullamento mentre i figli, esclusi dalle scuole, in alcuni casi (almeno ottocento saranno certificati a guerra conclusa) vengono sottratti ai genitori ed assegnati d’ufficio a famiglie “ideologicamente sane”. La via dell’emarginazione sociale viene perseguita dal Terzo Reich come premessa al successivo giro di vite che si attua nell’agosto del 1936, quando un’ondata di arresti si abbatte massicciamente sui membri della Congregazione, perlopiù immediatamente avviati ai costituendi lager. Alcuni d’essi vi rimarranno internati fino alla fine della seconda guerra mondiale, scontando, insieme ai politici, il più lungo periodo di detenzione registrato tra quanti vi furono deportati. Nel 1937, con l’apertura del campo di Buchenwald, viene istituito il “triangolo viola”, il simbolo di riconoscimento per coloro che sono detenuti in ragione della loro appartenenza alla Congregazione cristiana dei testimoni di Geova. Su ventimila aderenti più di seimila sono già stati privati delle loro libertà personali. Il 22 di aprile dello stesso anno, con un atto amministrativo, la Gestapo ottiene l’incarico di riarrestare tutti i congregazionisti che vengano liberati dalla magistratura, inviandoli immediatamente nei campi di concentramento. Da quel momento la loro sorte è definitivamente segnata. E con essa quella della denominazione. Le porte dei lager si chiudono alle spalle di queste persone (14).

In Italia, con lo svolgersi delle campagne coloniali e l’approssimarsi della guerra, i pochi adepti al culto sono fatti oggetto di una intensa campagna di repressione. Accusati di attività antifascista e di condotta antinazionale vengono arrestati arbitrariamente e detenuti, spesso senza condanna. Il semplice possesso di quella che era considerata “letteratura proibita” (ad esempio un volantino della Congregazione) costituiva ragione sufficiente per essere tradotti nelle regie galere o internati al confino in sperduti paesini dell’Italia meridionale.

L’acme delle persecuzioni si registra tra il settembre ed il dicembre del 1939 quando, nel corso di quella che verrà poi definita la “grande retata”, l’Ovra, con il concorso delle autorità di pubblica sicurezza, interroga 300 persone, ne arresta 150 e ne deferisce 26 al Tribunale Speciale. Di fatto la denominazione non esiste più e dovrà attendere il 1946 per riprendersi da quella che fu un’opera di annientamento morale ma anche e soprattutto fisico.

 

Note

1.     Si adotta il criterio, in uso nella denominazione, di considerare la parola   “testimone” come nome comune e non proprio, quindi con l’iniziale minuscola. Ciò permette ai suoi aderenti di identificarsi, in quanto testimoni di Dio, con quanti essi considerano loro predecessori, a partire dalle figure dell’Antico Testamento.

2.     Bernard Blandre, La storia dei Testimoni di Geova, San Paolo Edizioni, Milano 1995 pag. 65. L’autore, a sostegno di tale tesi, si richiama al volume di William J. Schell, Trent’anni schiavo della Torre di Guardia, Edizioni Centro Biblico, Napoli 1983. Sulla falsariga si vedano anche di Achille Aveta e Sergio Pollina, I testimoni di Geova e la politica. Martiri o opportunisti?, Edizioni Dehoniane, Roma 1990, I testimoni di Geova tra mito e realtà. Vittime o artefici dell’intolleranza religiosa?, Centro Grafico Meridionale, Foggia 1991 e, sempre del primo, I testimoni di Geova. Un’ideologia che logora, Edizioni Dehoniane, Roma 1990.

3.     Si veda al riguardo le pubblicazioni del G.R.I.S., dove ad affermazioni del tutto condivisibili si alternano, in misura spesso assai sottile, dichiarazioni avverse a tutti i culti e alle pratiche non cattoliche.

4.     Su questo aspetto si veda Peter Novick, The Holocaust in American Life, Mariner Books-Houghton Mifflin Company, 2001.

5.     Un primo segno in controtendenza è il fascicoletto editato dall’United States Holocaust Memorial Museum dedicato alle persecuzioni naziste contro i testimoni di Geova. La ricercatrice che più si è impegnata nello studio del comportamento della Congregazione nella Germania di Hitler è Christine Elisabeth King autrice di The Nazi State and the New Religions: Five Case Studies in Non-Conformity, vol. 4 della collana Studies in Relion and Society, Edwin Mellen Press, New York 1984 e di Jehovah’s Witnesses under Nazism pubblicato nell’opera collettanea curata da Michael Berenbaum, A mosaic of Victims: Non-Jews Persecuted and Murdered by the Nazis, New York University Press, New York 1990.

6.      Tra le tante opere sulla deportazione uscite anche in tempi recenti ne fa invece apposita menzione, con un capitoletto a sé, il volume a taglio didattico di Jean-Michel Lecomte, La storia dell’olocausto, Sapere 2000 edizioni, Milano 2002 che dedica alcune pagine a Le persecuzioni dei Testimoni di Geova.

7.     Sull’atteggiamento del nazionalsocialismo verso gli “studenti della Bibbia” si segnalano alcuni recenti lavori. In lingua italiana si può consultare di Sylvie Graffare e Léo Tristan, I Bibelforscher e il nazismo (1933-1945), Editions Tiresias-Michel Reynaud, Pagini 1994; in francese di G. Canonici, Les Témoins de Jehovas face à Hitler, Albin Michel, Paris 1998; in tedesco di Detlef Garbe, Zwischen Widerstand un Martyrium. Die Zeugen Jehovas im “Dritten Reich”, Oldenbourg, Muenchen 1997; in inglese il lavoro collettivo Persecution and Resistance of Jehovah’s Witnesses during the Nazi Regime 1933-1945, Temmen Edizioni, Bremen 2001.

8.     Su questi ed altri aspetti delle politiche fasciste verso i “culti ammessi” e minori si veda la ricerca di Giorgio Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche. Direttive e articolazioni del controllo e della detenzione, Claudiana, Torino 1990 dove un intero capitolo è dedicato ai testimoni di Geova. Sulla Congregazione molto documentati sono i lavori di Paolo Piccioli, I testimoni di Geova durante il regime fascista in Studi Storici, anno 41, numero 1, gennaio-marzo 2000 e di Matteo Pierro, Fra martirio e resistenza. La persecuzione nazista e fascista dei testimoni di Geova, Editrice Actac, Como 2002. Più in generale, come opera collettanea, si segnala anche il volume Minoranze, coscienza e dovere della memoria, Jovene Editore, Napoli 2001. Da evidenziare, inoltre, l’opera di Mimmo Franzinelli su I tentacoli dell’Ovra, Bollati Boringhieri, Torino 1999 ed ulteriori edizioni, interamente incentrata sullo studio della polizia politica fascista impegnata nella repressione di quanti erano reputati avversari del regime.

9.     A tal riguardo si consiglia la lettura del volume di Robert Gellately e Nathan Stoltzfus, Social Outsiders in Nazi Germany, Princeton University Press, Princeton 2001.

10. Una sintesi della vicenda della Congregazione è offerta dall’ Encyclopedia of The Holocaust, 1990 al secondo volume alla voce Jehovah’s Witnesses.

11. Su questo punto il classico lavoro di Guenter Lewy, I nazisti e la chiesa    cattolica, il Saggiatore, Milano 1965

12. Christine Elisabeth King, The Nazi State and… Cap. 7 Alcune conclusioni, traduzione italiana in corso di realizzazione.

13. Su questo punto ancora Paolo Piccioli, op.cit.

14. Sull’internamento nei lager dei testimoni di Geova, oltre alle opere già citate, si segnalano di Erhard Klein, Jehovas Zeugen im KZ Dachau, Muenchen 2001e di Hans von Hesse e Juergen Harder, “…und wenn ich lebenslang in einem KZ bleiben muesste…”, Klartext Verlag, Essen 2001.

 Claudio Vercelli

 Claudio Vercelli, storico e pubblicista, è ricercatore presso l’Istituto di studi storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto di ricerca e formazione sugli “Usi della storia, usi della memoria”. Ritorna

Vedi anche:  "Politica e pregiudizio nazista nei confronti delle minoranze. Alcuni spunti di riflessione" di Claudio Vercelli


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