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"I Dimenticati dell'Olocausto" Aula Maggiore Università
Bocconi |
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Da
sinistra a destra: Claudio Vercelli (Ricercatore e storico), Steno Sari
(Giornalista), Achille Marzio Romani (Preside Istituto Storia Economica), Livia
Pomodoro (Presidente Tribunale Minori), Franco Amatori (Docente di Storia
economica)
Il totalitarismo, da questo punto di vista, implicava la
sovrapposizione di un’unica volontà, quella del politico, alle molteplici
espressioni della società civile, ridotte all’adesione acritica alla prima.
Il criterio fatto proprio dal nazionalsocialismo era quello di ricondurre ogni
aspetto ed ogni momento della vita quotidiana dei tedeschi ad un unico
referente, quello ideologico del partito al potere – autentica centrale del
pensiero oltreché organizzazione politica propriamente intesa – escludendo
quanti non si fossero conformati ad esso. Ciò avveniva concretamente sulla base
della semplice distinzione tra amico e nemico: apparteneva alla
prima categoria chi accettava di “marciare in riga”, in una società dove il
tasso di militarizzazione delle persone come delle opinioni era in costante
crescita; era reputato nemico, invece, chiunque manifestasse anche solo una
qualche idea diversa da quelle dominanti. La ricerca storiografica ha messo bene
in luce come questo risultato sia stato raggiunto da Hitler e dai suoi sodali
attraverso una commistione tra repressione e consenso. Attribuire infatti tale
esito alla sola azione delle efficienti polizie politiche – prima tra tutte la
Gestapo – sarebbe scorretto. In realtà, per ragioni molto complesse che hanno
a che fare sia con la difficile situazione economica e politica nella quale
versava la Germania pre-hitleriana, sia con i moventi, spesso contraddittori,
dell’animo umano, non pochi tedeschi aderirono, e con un certo entusiasmo,
alle proposte del capo nazista. E’ forse corretto dire, prendendo a prestito
l’espressione da Erich Fromm, psicoanalista e studioso dei movimenti
autoritari, che nei momenti di difficoltà non pochi uomini e donne hanno “paura
della libertà” ovverosia temono di dovere scegliere in autonomia,
affidando così quel che loro considerano un “onere” e non un “onore” ad
altri, prime tra tutte a quelle figure carismatiche che riescono ad
interpretare i sentimenti più intimi e repressi di una collettività spaventata
ed intimidita dai compiti che la realtà delle cose consegna ad essa. La capacità
dei leader politici di “intercettare” queste angosce diffuse, traducendole
in gesti simbolicamente rassicuranti, è capitale per la fortuna di questi –
Hitler ne è un esempio – e per la sfortuna, almeno sul lungo periodo, dei
popoli che ad essi si affidano. Poiché, è bene ricordarselo sempre, da un
regime totalitario, monocratico, intollerante e razzista le società escono
sempre con le ossa rotte, generalmente per via di una guerra. E’ successo per
la Germania degli anni trenta e quaranta, alla quale il secondo conflitto
bellico, da essa stessa scatenato, costò milioni di morti tra i connazionali,
così come ad altri paesi in altre epoche, più o meno recenti della storia.
Questa,
comunque, era la vera natura della cosiddetta comunità di popolo: emarginazione
e, successivamente, persecuzione delle minoranze; integrazione
della maggioranza dei tedeschi in vista di uno specifico obiettivo, quello della
guerra totale. Poiché questi ultimi avevano una solo funzione – e non un
valore in quanto uomini: essere delle macchine da combattimento.
Qual
era il fondamento dell’ideologia della comunità di popolo? Il precetto
imprescindibile era quello della razza, intesa come un insieme di
caratteristiche fisiche, somatiche, biologiche e culturali, tra di loro
intersecate ed interagenti. Ogni individuo appartiene ad una delle razze nelle
quali, a detta dei “pensatori” nazisti e razzisti, il mondo si divide.
Ragion per cui non esistono né singoli individui – caratterizzabili per la
loro soggettività morale e culturale – né un’unica umanità, pur nelle
differenze storiche e sociali delle sue componenti ma solo un insieme di gruppi
le cui caratteristiche sono al contempo la fissità e l’ascrizione.
Infatti le razze sono, sempre secondo quanti condividono tali “idee”,
immutabili e quindi astoriche nella loro intima costituzione: non cambiano mai,
non interagiscono con l’ambiente circostante, non sono il prodotto di una
qualche forma di evoluzione. Sono per l’appunto fisse, statiche, prive
di storia. E la storia stessa è il risultato dell’incontro e, soprattutto
dello scontro, tra di loro poiché sono in costante concorrenza, in lotta le une
contro le altre. Esistono razze migliori e razze peggiori, una sorta di scala
gerarchica che fa sì che le prime possano legittimamente prevaricare
sulle seconde. La razza ariana è, a tal riguardo, quella
qualitativamente più pregiata. La ragione sta nel sangue ariano, entità
e sostanza primigenia che ne costituirebbe l’essenza più intima. Va detto, ad
onore di chiarezza, che questi termini (razza, sangue, popolo e così via) erano
comunemente usati dai “razzisti” dell’epoca senza che il loro effettivo
contenuto venisse spiegato; e questo poiché si trattava di una serie di
concetti il cui spessore scientifico era pari allo zero. Il tentare di dare ad
essi un qualche significato che non fosse quello funzionale all’uso
politico che se ne faceva avrebbe messo a nudo la loro inconsistenza. E
avrebbe quindi causato una crisi di legittimità culturale del potere
hitleriano.
La
razza, secondo i nazisti, non ha a che fare con la religione o con la morale: è
una condizione originaria che l’individuo non si sceglie. Se si nasce
ebrei non si è tali per il culto professato dai genitori o da sé, bensì per
l’appartenenza alla razza ebraica che, dal punto di vista dei
nazionalsocialisti, poco o nulla c’entra con le credenze religiose e molto,
invece, con le ascendenze biologiche. In questo legame, inprescindibile e
insuperabile tra singolo e gruppo, si determina l’ascrittività della
propria origine. Si è quel che sono i propri genitori, i nonni e, più in
generale, coloro tra quanti costituiscono il proprio gruppo razziale di
appartenenza. Questa condizione, si badi bene, vale non solo da un punto di
vista morale ma anche e soprattutto sul piano della determinazione fisica
interiore, laddove si ragiona in termini di molecole e particelle elementari. La
presunta (e in realtà inesistente) diversità di costituzione biologica
determinerebbe, secondo questo costrutto, profili sociali e condotte etiche
differenti.
L’uso che i seguaci di Hitler facevano del discorso antropo-biologico era palesemente mistificato ed alterato. Raccogliendo e manipolando alcuni aspetti delle scienze esatte, comunemente dibattuti in quegli anni, essi ne distorcevano a fini politico-ideologici il significato, piegandolo agli usi che erano propri di una prassi il cui obiettivo era quello di violare la dignità e l’integrità dell’altrui persona.
La
razza, così intesa, era il punto di partenza e di arrivo di ogni
politica. L’essere parte della stessa comportava l’aspettativa che la
persona in oggetto adempisse ai precetti politici e sociali derivanti da tale
condizione. I membri della razza ariana erano tenuti alla massima
conformità di comportamento; i garanti che tale fatto avvenisse erano il
partito e lo stato, strumenti – nell’ottica nazista – della realizzazione
del progetto di purificazione etnica dell’Europa, da raggiungere
attraverso la guerra. Gli appartenenti alla razza ebraica, invece, erano
vincolati a loro volta ad una serie di condotte che gli erano prescritte
coattivamente: in quanto esponenti di un gruppo considerato socialmente
indesiderato, dovevano vivere ai margini della società, reietti e rifiutati, in
attesa che si raggiungesse una “soluzione finale” riguardo al “problema”
della loro presenza. La natura di tale atto ultimativo, come poi abbiamo saputo,
sarebbe stata lo sterminio fisico di tutti gli individui identificati come
appartenenti alla comunità semitica.
2.
Pertanto i concetti di razza e totalitarismo (e la prassi politica
che da essi derivava) implicavano l’inaccettabilità dell’idea stessa di
minoranza. Se gli ebrei erano considerati non come espressione di una tale
condizione bensì come una sorta di genere umanoide a sé stante,
negazione della razzialità ariana, ovvero del complesso di caratteri
positivi che a questa erano attribuiti – forza, bellezza, determinazione e così
via – nel caso di quei soggetti che furono fatti oggetto di persecuzioni dal
regime ma che pure appartenevano al “ceppo ariano” – omosessuali,
politici, testimoni di Geova ma anche la più generica categoria dei cosiddetti asociali,
cioè di quanti assumevano atteggiamenti e comportamenti censurati dalla morale
dominante – è corretto parlare di minoranze. Ciò che i nazisti contestavano
agli appartenenti a questi gruppi era una condotta deviante rispetto alle
direttive e alle aspettative del potere in camicia bruna. Tale accusa che, una
volta comprovata, comportava la detenzione in un qualche campo di
concentramento, generalmente si basava su una di queste premesse:
a)
l’avere espresso e praticato idee non in sintonia con quelle del potere
(i cosiddetti “politici”);
b)
l’appartenere ad un culto non riconosciuto, ovvero non riconducibile ai
due gruppi maggioritari, i cattolici e i protestanti, con i quali il regime
aveva raggiunto una intesa, sia pure solo temporanea ed incerta (i testimoni di
Geova);
c)
il fare propri atteggiamenti e comportamenti socialmente stigmatizzati
come un taglio di capelli o un abbigliamento diversi da quelli abituali oppure
organizzare gruppi associativi alternativi a quelli riconosciuti ufficialmente
(i cosiddetti “asociali”);
d)
l’assumere atteggiamenti sessuali censurati dall’opinione dominante
(gli omosessuali ma anche taluni internati “comuni”).
L’appartenere
ad una minoranza corrispondeva, dal punto di vista del regime, all’essere in
una situazione di minorità. Tale “imperfezione”, diversa
dall’appartenere ad una razza non ariana (condizione, quest’ultima,
immutabile), poteva e doveva essere sanata educando il “minorato” ai
principi del nazionalsocialismo e chiedendogli chiara prova dell’avvenuta abiura
delle opinioni, dei comportamenti, delle credenze anzitempo espresse.
Nella mentalità hitleriana la concezione di una società strutturata per caste
(gruppi sociali omogenei, uniti da un comune denominatore) e basata su una
visione pagana della vita comportava l’esclusione totale dalla
cosiddetta “comunità nazionale di popolo” di quanti non si fossero adeguati
ai suoi principi ideologici. L’ossessione manifestata per il sempre eguale
(i tedeschi, nell’ottica nazista, dovevano ridursi ad essere una sorta di
copia estetica e culturale del calco originario: biondi, con gli occhi azzurri,
alti, bellicosi, aggressivi, ideologizzati, tenaci, devoti al fuehrer fino alla
morte e completamente privi di una propria soggettività morale) si traduceva
nella sovrapposizione dell’identico all’identità. In altri termini:
quel complesso di attributi, spesso mutevoli, che rendono un individuo – e con
esso la collettività alla quale appartiene – singolo e irripetibile,
era concepito dai nuovi signori della Germania come un pericolo. La diversità
– valore in sé poiché ricchezza di ogni società, oltreché suo aspetto
imprescindibile, irrinunciabile ed ineliminabile – doveva essere cancellata, a
costo di eliminare coloro che ne erano portatori ed espressione. Esisteva una
sola ed unica identità, quella ariana, basata sul vincolo del sangue. La
“missione” del popolo tedesco consisteva nell’affermazione di questo
principio razziale. Qualunque cosa si frapponesse a questo obiettivo doveva
essere non solo contrastata ma addirittura sradicata. Per questa ragione gli
appartenenti a gruppi o sodalizi differenti erano fatti immediato oggetto delle
attenzioni della polizia politica e degli apparati di repressione.
Le
persecuzione che a partire dal 1933, anno di ascesa al potere di Hitler, ebbero
corso nei confronti dei dissidenti politici, dei “diversi” sul piano
culturale, morale e religioso, dei razzialmente indesiderati – in una parola
dei nemici della comunità ariana - si articolarono progressivamente, sia
secondo un criterio che via via aggiungeva ai vecchi destinatari di tali
violenze sempre nuove vittime, sia in base agli strumenti che nel corso del
tempo venivano raffinandosi. Il campo di concentramento ne fu la sintesi
estrema, una sorta di espressione ultimativa di tutto quanto il deteriore
immaginario nazista riusciva a produrre sul piano della repressione della vita
e, infine, a partire dalla guerra nel 1939, del suo sterminio.
I
caratteri della politica nazista contro quelli che considerava i suoi
antagonisti – va ricordato che nella maggioranza dei casi si era in presenza
di persone e famiglie inermi, del tutto inoffensive, perseguitate in quanto identificate
come nemiche e non necessariamente in base a gesti o atti di
opposizione per parte delle stesse – erano quelli propri ad una repressione sistematica
e annichilente: nessuna delle vittime doveva sfuggirvi. Era una
questione di principio. La sistematicità, ovvero la costanza, la
continuità, la capillarità del sistema di oppressione era tale da rasentare la
parodia di se stesso: in piena guerra, quando oramai le sorti della Germania
erano segnate e la sconfitta si poneva all’orizzonte, gli zelanti funzionari
della Gestapo si impegnavano ancora a dare la caccia agli ultimi ebrei
sopravvissuti alle retate dei mesi e degli anni precedenti. Nel mentre i
bombardamenti delle città tedesche si succedevano di giorno in giorno, tra le
rovine fumanti, e il fronte oramai traballante e prossimo a cedere
preannunciavano la fine prossima ventura, i signori della morte si muovevano con
solerzia alla ricerca degli sventurati da deportare. Così fino all’ultimo dei
giorni di quel regime.
L’annichilimento
presupponeva e al contempo causava la distruzione morale e fisica delle vittime.
Nel circuito repressivo nazista chi vi entrava non doveva più uscirne.
Era il principio basilare di quella che è stata molto opportunamente definita
una pedagogia dell’annientamento. Lo strumento principe di questa
“educazione al rovescio” – foriera di morte invece che di vita – era per
l’appunto il lager, ovverosia il campo di concentramento. La sua intima
natura, l’organizzazione interna, i tempi e i modi attraverso i quali veniva
scandita la quotidianità degli internati erano quelli propri ad un sistema dove
l’individuo subiva prima un processo di degradazione (privazione degli
abiti, annullamento dell’identità personale, sottoposizione al lavoro
forzato, somministrazione di punizioni corporali spesso del tutto arbitrarie e
violente) per poi successivamente soccombervi fisicamente. L’annientamento era
prima di tutto morale, poi materiale. Nessuna possibilità di liberazione si
poneva nell’orizzonte degli infelici che vi erano trattenuti se non quella
della morte.
La
politica nazista di oppressione delle minoranze e di sterminio degli ebrei e
degli zingari aveva un carattere radicale. Come in una sorta di gioco
d’azzardo, dove di giro in giro la posta in gioco si fa sempre più alta,
dalle iniziali misure si passò, passo dopo passo, alla creazione di un circuito
sempre più esteso di campi, un vero e proprio universo concentrazionario.
3.
E’ all’interno d’esso che trovano attuazione le misure più disumane e
violente. Ed è in questo autentico buco nero che, tra gli altri, vengono
precipitati i Bibelforscher, gli “studenti della Bibbia”. Già a
partire dal 1933 erano stati fatti oggetto delle attenzioni da parte del regime.
E’ infatti in quell’anno, e per la precisione il 24 luglio, che tale culto
viene messo fuori legge, dopo esserlo stato nell’aprile in Baviera. Nella
decisione avevano inciso più fattori e non da ultima l’avversione che sia la
Chiesa Cattolica che quella Luterana nutrivano nei confronti di un credo
reputato avverso e concorrente, soprattutto in ragione della sua azione a favore
del proselitismo. Per parte loro i nazisti guardavano con timore la propensione
di questa congregazione ad organizzare grandi raduni di massa, intollerabili per
un partito che intendeva occupare tutti gli spazi di socialità disponibili. A
ciò inoltre si aggiungeva la manifesta indisponibilità nei confronti di una
comunità religiosa irriducibile alle forme di mediazione e compromesso cui gli
altri culti si rivelavano disponibili nei confronti dei nuovi dominatori.
Peraltro già nel mese di giugno dello stesso anno era stato fatto divieto della
pubblicazione e diffusione della Torre di Guardia. All’epoca i
Testimoni di Geova tedeschi erano circa 25.000: di essi, negli anni successivi,
almeno 2.000 furono deportati ed internati nei campi di concentramento, dove 635
morirono di stenti e per le violenze subite; 235 furono invece condannati a
morte (e 203 effettivamente giustiziati); 1687 persero il lavoro e 6019 subirono
gli arresti o misure di limitazione della libertà personale; 860 bambini,
infine, furono strappati alle loro famiglie naturali per essere consegnati a
genitori adottivi ideologicamente affidabili, coerenti con i
“principi” ariani.
Se
in un primo tempo i Testimoni di Geova sembrarono non esercitare una opposizione
di principio al regime, addivenendo addirittura ad una prima Dichiarazione
(25 giugno 1933) – peraltro sottoscritta sotto l’incedere tumultuoso degli
eventi e della condizione di costrizione di fatto che l’espansione a
macchia d’olio del regime imponeva a quanti ne dovevano subire la sua violenta
giurisdizione - nella quale affermavano di non volersi contrapporre aprioristicamente contro il nuovo regime e di condividerne l'ostilità contro il bolscevismo, contro la Chiesa intesa come autorità politica oltreché ribadendo la propria estraneità nei riguardi dell'ebraismo, con il passare del tempo le cose mutarono e sensibilmente. Il vero punto di non ritorno era costituito dalla riaffermazione dal credo fondamentale della denominazione, ovvero l'adorazione di Geova Dio e dal disconoscimento del potere secolare quand' esso fosse, nei suoi fini e nei suoi mezzi, in contrasto con quanto l'insegnamento delle Scritture prescriveva ai buoni cristiani. Quel che lo stesso gruppo dirigente dei Bibelforscher non poteva sapere era che i nazisti non intendevano permettere alcunché a chicchessia,
un regime che chiamava tutto e tutti in causa,
impegnato com’era a distruggere qualsivoglia forma di organizzazione umana,
individuale e collettiva, che non fosse omologabile all’interno delle sue
strutture. Il tentativo di arrivare ad una qualche forma di chiarificazione
della propria posizione riguardo alla mutata situazione dei fatti attraverso la Dichiarazione del ’33, infatti, ben presto si infranse contro la
situazione di fatto che andava determinandosi. L’unica opzione accettabile, dal punto
di vista di questi ultimi, era l’autoestinzione della denominazione cristiana.
Peraltro il giudizio che il regime formulava sui Testimoni di Geova era
connotato da una estrema radicalità: questi erano definiti come dei “giudaizzati”
(poiché adottavano e leggevano l’Antico Testamento), facenti parte di un “movimento
internazionale”, come tale cospirativo ed antitedesco, di “radice
marxista”. Il paradosso stava nel fatto che la deliberata e conclamata non
politicizzazione giocava a sfavore dello stesso culto poiché in ciò gli uomini
di Hitler leggevano la vocazione ad una opposizione totale (in quanto di
principio e non poiché politica). Quando nel 1935 il regime reintrodusse la
coscrizione obbligatoria, imponendo a tutti i giovani tedeschi di prestare il
servizio di leva, in previsione della guerra prossima ventura, il netto rifiuto
per parte dei Bibelforscher fu percepito da parte delle autorità, militariste e
belliciste alla radice, come un attacco al cuore dello stato germanico.
Parimenti può dirsi del diniego nei confronti del saluto obbligatorio, quell’
“Heil Hitler” che sostituì il più prosaico ma neutrale
“buongiorno”. Tra il 1936 e il 1937 le autorità operano una prima ondata di
arresti. Se fino ad allora le ostilità nei confronti dei membri della
denominazione erano state il prodotto delle scelte, individuali o collettive,
delle milizie naziste, ora ad intervenire erano le istituzioni pubbliche
nazificate. La loro azione era la risposta ad una chiara indicazione politica,
proveniente dalle più alte sfere, volta a “sradicare” la presenza di
un movimento religioso la cui stessa natura era concepita come un’offesa alla
potestà e alla maestà della nuova “comunità di popolo”, raccolta intorno
al fuehrer della “nuova” Germania. La congregazione, per parte sua, non
prese neanche in considerazione l’opportunità di cessare o di attenuare le
proprie attività e le iniziative a favore del proselitismo. Questa pervicacia
esponeva i membri all’azione repressiva, congiuntamente esercitata sul piano
formale dai giudici nelle aule dei tribunali e su quello informale dagli
scherani e dai pretoriani nazisti nelle strade del paese. Quel che è
significativo – in questa vicenda come in altre – è che i Testimoni furono
progressivamente privati dei loro diritti civili e fatti oggetto di violenze e
persecuzioni attraverso un sistema fondato sulla legalizzazione
dell’arbitrio. La repressione esercitata dalle autorità si rifaceva ad un
fondamento ideologico e ad una trasposizione giuridica che si basava sul
rispetto della parvenza di legalità. Poiché il crimine istituzionalizzato, se
dovevano avvenire, necessitava che rispondesse “a norma di legge”. C’è di
che interrogarsi su cosa fosse divenuta la Germania in quegli anni.
4.
L’involuzione degli eventi, il parossistico incremento della pressione
esercitata dalle strutture del regime contro quanti erano da esso ritenuti i
suoi nemici, la chiusura di ogni spazio di libera espressione, il succedersi di
disposizioni e di pratiche liberticide furono tra le ragioni che, sommate agli
arresti di cui si è già fatta menzione, determinarono i Bibelforscher ad
assumere una posizione di netto rifiuto nei confronti del nazionalsocialismo. Già
nel 1935 l’originario bando era stato riemanato mentre la vigilanza poliziesca
era stata ulteriormente potenziata. All’epoca appartenere alla denominazione
cristiana comportava il rischio di essere assoggettati ad una serie di misure
fortemente restrittive della propria libertà ed autonomia: il licenziamento dal
posto di lavoro, la perdita dei diritti alla pensione, la sottrazione dei figli
e la “giusta causa” nei procedimenti di divorzio.
La
Convenzione di Lucerna, nel settembre dl 1936, perviene alla condanna del
regime nazista. La storia successiva è nella sua sostanza nota. Con
l’approssimarsi della guerra e il suo realizzarsi l’inasprimento delle
misure persecutorie culminò nella deportazione e nell’internamento di quanti
erano identificati come titolari di una fede che non fosse quella nazista. Benché
i Testimoni di Geova non fossero e non siano mai stati degli
oppositori politici, non almeno a stretto giro di logica se con ciò si
intende una intenzionalità manifesta, né tantomeno un gruppo considerato
“razzialmente ostile, il fatto stesso che avessero deciso di non
prescindere dal proprio credo li collocava immediatamente in rotta di collisione
con gli apparati del regime. Quest’ultimo contestava ad essi essenzialmente
due cose:
a)
il non essere dei “buoni ariani” (una specie di infrazione contro la
maestà della razza);
b)
l’avere mantenuto un atteggiamento prima di neutralità poi di rifiuto
nei confronti dei nuovi poteri (reato considerato più propriamente politico).
Le
radici dell’opposizione esercitata dalla denominazione può essere così
riassunta:
a)
il credo rigorosamente pacifista e serenamente antibellicista;
b)
il totale rifiuto di una autorità dittatoriale anticristiana, vocata
alla propria autodeificazione;
c)
la considerazione di Hitler come di una “bestia dell’Apocalisse”,
in accordo con la lettera delle Sacre Scritture;
d)
l’adesione all’irrinunciabile principio che si ubbidisce a Dio e non
agli uomini quando le ingiunzioni di costoro sono inique.
Un’opposizione
morale e religiosa, come si avrà modo di osservare, che diventa a tratti
politica nel momento in cui è lo stesso regime a costringere i Bibelforscher ad
una scelta in tal senso. Il comportamento di questi ultimi si inquadra nel più
complesso fenomeno della Resistenza civile che animò l’Europa di
quegli anni, sottoposta ai regimi fascisti e nazista. Se ci fu chi si oppose
armi alla mano contro gli usurpatori e i conculcatori delle libertà, molti
altri posero in atto iniziative e azioni, più o meno esplicite ed organizzate,
caratterizzate dal non implicare l’uso di strumenti d’offesa. Nel caso dei
Bibelforscher la resistenza al regime fu sempre e comunque disarmata,
caratterizzata da una forte vocazione testimoniale.
Quindi,
se agli ebrei veniva contestata la colpa di esistere, ai politici la responsabilità
dell’opposizione, agli “asociali” il marchio della differenza,
ai Testimoni di Geova era attribuita la colpa di testimoniare.
Da
questo punto di vista va detto che il fenomeno dell’oppressione nazista
dell’Europa si caratterizzò per un unico denominatore – la volontà di
distruggere ogni forma di vita che non fosse omologabile al suo progetto
politico e demografico – ma anche per la pluralità di forme attraverso le
quali si realizzò. I destini non erano identici: nel circuito dei lager, anello
terminale della lunga catena di vessazioni e persecuzioni, la sorte peggiore era
senz’altro quella assegnata ai deportati razziali e ai prigionieri di guerra
sovietici, destinati comunque alla morte. Ciò nulla toglie alle sofferenze
subite dagli altri internati. Di ognuno d’essi va invece indagata - e
ricostruita – la specificità dell’esperienza vissuta in quei
terribili luoghi. In essi i deportati religiosi costituivano un piccolo e
compatto gruppo, coeso e collaborativo nei confronti degli altri infelici. La
loro condotta, informata all’ordine, alla pulizia, alla perseveranza e alla
disciplina mantenute nelle baracche nelle quali erano alloggiati, era
determinata dagli intimi convincimenti che li animavano. Ragion per cui mai
cooperarono con i gruppi illegali e si rifiutarono sempre di fuggire dai campi o
di adoperarsi per una resistenza attiva nei confronti delle autorità
penitenziarie. Ciò ha ingenerato l’accusa, neanche troppo sottile, di essere
stati acquiescenti nei confronti dei loro persecutori. Eppure, proprio in virtù
di quel pluralismo che è proprio all’esperienza delle deportazioni, è bene
ricordare che se diversi erano i motivi per i quali si veniva internati
differenti erano anche i modi con i quali si viveva tale evento, senza che ciò
debba immediatamente ingenerare una scala di giudizi per la quale certe vittime
diventano quasi corresponsabili di quanto avvenne loro. C’era una
deportazione di natura politica – coinvolgente soggetti attivamente impegnati
nella lotta contro il nazismo; una di origine razziale – riguardante
individui, famiglie ed intere comunità caratterizzate per la presunta
appartenenza alla cosiddetta “razza”; una legata a motivi di ordine sociale
e morale – concernente gli omosessuali, gli “asociali”, i praticanti i
culti non ammessi; una connessa all’internamento dei militari appartenenti
alle nazioni in lotta contro la Germania nei confronti dei quali quest’ultima
non applicava la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di
guerra – soprattutto i sovietici e poi, a fare dal settembre del ’43, anche
gli italiani; ed infine una deportazione di soggetti definiti “comuni” –
perlopiù criminali abituali trasferiti dagli istituti di detenzione nei lager.
Solo
unendo le tantissime storie si può avere un quadro sufficientemente unitario
delle vicende di quegli anni, formulando così un giudizio che nessuno escluda
sulla scorta di preclusioni morali e culturali. I Testimoni di Geova vissero
quella terribile esperienza come una prova del proprio credo. Furono saldi
poiché non vennero mai meno ai loro principi, a rischio della vita,
come ci testimonia – tra le tante – la storia di Narciso Riet, assassinato
dai suoi persecutori in camicia bruna dopo una quantità inenarrabile di
vessazioni e brutalità. Gli sarebbe bastato firmare il modulo di abiura
per aver salva l’esistenza e potere aspirare alla libertà. Ma in cuor suo
aveva deciso che l’unica libertà degna d’essere vissuta era quella che
avrebbe potuto scegliere in accordo con i suoi intimi convincimenti religiosi.
Una
testimonianza, questa, che è al contempo anche martirio e che ci parla della
contemporaneità di quei gesti, che ci appartengono in quanto espressione, nella
loro singolarità, dell’anelito collettivo alla libertà di coscienza.
Peraltro, non a caso il regime nazista uscì sconfitto dalla terribile guerra
che esso stesso scatenò. Segno ultimo che il dominio belluino senza consenso è
destinato a non durare oltre quella che è la sua breve esistenza storica.
Claudio
Vercelli
Claudio Vercelli, storico e pubblicista, è ricercatore presso l’Istituto di studi storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto di ricerca e formazione sugli “Usi della storia, usi della memoria”. Ritorna
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anche: La natura dell'oppressione nazista e fascista contro i testimoni di Geova in Italia e Germania e la loro deportazione. Claudio Vercelli. Febbraio 2002
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