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Claudio Vercelli . Incontro "I dimenticati dell'olocausto." Lo sterminio nazista dei testimoni di Geova. Università Bocconi. Novembre 2001
Claudio Vercelli


Politica e pregiudizio nazista nei confronti delle minoranze.
 Alcuni spunti di riflessione

di Claudio Vercelli

"I Dimenticati dell'Olocausto" 
Lo sterminio nazista dei 
Testimoni di Geova

 Aula Maggiore Università Bocconi 
13 novembre 2001  ore 17.00 – 19.00  

alcuni presenti all'incontro "I dimenticati dell'olocausto. Lo sterminio nazista dei testimoni di Geova. "Università Bocconi. Novembre 2001
Alcuni dei presenti all'incontro 

Da sinistra a destra: Claudio Vercelli (Ricercatore e storico), Steno Sari (Giornalista), Achille Marzio Romani (Preside Istituto Storia Economica), Livia Pomodoro (Presidente Tribunale Minori), Franco Amatori (Docente di Storia economica)  . Claudio Vercelli . Incontro i dimenticati dell'olocausto. Lo sterminio nazista dei testimoni di Geova. Università Bocconi. Novembre 2001
Da sinistra a destra: Claudio Vercelli (Ricercatore e storico), Steno Sari (Giornalista), Achille Marzio Romani (Preside Istituto Storia Economica), Livia Pomodoro (Presidente Tribunale Minori), Franco Amatori (Docente di Storia economica) 


    1. Non si commette errore affermando che nella Germania del Terzo Reich (1933-1945) la politica nei confronti delle minoranze e il pregiudizio che alimentava i rapporti verso di esse fossero tutt’uno. Poiché l’assunto fondamentale dal quale il regime partiva per orientare i suoi atti e le sue scelte era che una sola comunità, quella di popolo – la Volksgemeinschaft – esistesse e che tutto quanto fuoriusciva da essa o se ne rivelava eccentrico non avesse diritto d’esistere. Il concetto stesso di comunità popolare, fondato su alcuni presupposti tanto falsi e mistificanti quanto ripetutamente riproposti all’opinione pubblica tedesca come autentici articoli di fede, aveva in sé una radice totalitaria ovvero si basava su premesse indimostrate (ed indimostrabili) ma che si imponevano a tutti indistintamente.  Chi non accettava le posizioni del regime, non solo sul piano politico ma anche culturale, etico e financo religioso (laddove questo ultimo si discostava dai culti riconosciuti) era destinato ad essere identificato prima come un potenziale pericolo e poi ad essere perseguitato in quanto effettivamente tale.

Il totalitarismo, da questo punto di vista, implicava la sovrapposizione di un’unica volontà, quella del politico, alle molteplici espressioni della società civile, ridotte all’adesione acritica alla prima. Il criterio fatto proprio dal nazionalsocialismo era quello di ricondurre ogni aspetto ed ogni momento della vita quotidiana dei tedeschi ad un unico referente, quello ideologico del partito al potere – autentica centrale del pensiero oltreché organizzazione politica propriamente intesa – escludendo quanti non si fossero conformati ad esso. Ciò avveniva concretamente sulla base della semplice distinzione tra amico e nemico: apparteneva alla prima categoria chi accettava di “marciare in riga”, in una società dove il tasso di militarizzazione delle persone come delle opinioni era in costante crescita; era reputato nemico, invece, chiunque manifestasse anche solo una qualche idea diversa da quelle dominanti. La ricerca storiografica ha messo bene in luce come questo risultato sia stato raggiunto da Hitler e dai suoi sodali attraverso una commistione tra repressione e consenso. Attribuire infatti tale esito alla sola azione delle efficienti polizie politiche – prima tra tutte la Gestapo – sarebbe scorretto. In realtà, per ragioni molto complesse che hanno a che fare sia con la difficile situazione economica e politica nella quale versava la Germania pre-hitleriana, sia con i moventi, spesso contraddittori, dell’animo umano, non pochi tedeschi aderirono, e con un certo entusiasmo, alle proposte del capo nazista. E’ forse corretto dire, prendendo a prestito l’espressione da Erich Fromm, psicoanalista e studioso dei movimenti autoritari, che nei momenti di difficoltà non pochi uomini e donne hanno “paura della libertà” ovverosia temono di dovere scegliere in autonomia, affidando così quel che loro considerano un “onere” e non un “onore” ad altri, prime tra tutte a quelle figure carismatiche che riescono ad interpretare i sentimenti più intimi e repressi di una collettività spaventata ed intimidita dai compiti che la realtà delle cose consegna ad essa. La capacità dei leader politici di “intercettare” queste angosce diffuse, traducendole in gesti simbolicamente rassicuranti, è capitale per la fortuna di questi – Hitler ne è un esempio – e per la sfortuna, almeno sul lungo periodo, dei popoli che ad essi si affidano. Poiché, è bene ricordarselo sempre, da un regime totalitario, monocratico, intollerante e razzista le società escono sempre con le ossa rotte, generalmente per via di una guerra. E’ successo per la Germania degli anni trenta e quaranta, alla quale il secondo conflitto bellico, da essa stessa scatenato, costò milioni di morti tra i connazionali, così come ad altri paesi in altre epoche, più o meno recenti della storia.

    Questa, comunque, era la vera natura della cosiddetta comunità di popolo: emarginazione e, successivamente, persecuzione delle minoranze; integrazione della maggioranza dei tedeschi in vista di uno specifico obiettivo, quello della guerra totale. Poiché questi ultimi avevano una solo funzione – e non un valore in quanto uomini: essere delle macchine da combattimento.

    Qual era il fondamento dell’ideologia della comunità di popolo? Il precetto imprescindibile era quello della razza, intesa come un insieme di caratteristiche fisiche, somatiche, biologiche e culturali, tra di loro intersecate ed interagenti. Ogni individuo appartiene ad una delle razze nelle quali, a detta dei “pensatori” nazisti e razzisti, il mondo si divide. Ragion per cui non esistono né singoli individui – caratterizzabili per la loro soggettività morale e culturale – né un’unica umanità, pur nelle differenze storiche e sociali delle sue componenti ma solo un insieme di gruppi le cui caratteristiche sono al contempo la fissità e l’ascrizione. Infatti le razze sono, sempre secondo quanti condividono tali “idee”, immutabili e quindi astoriche nella loro intima costituzione: non cambiano mai, non interagiscono con l’ambiente circostante, non sono il prodotto di una qualche forma di evoluzione. Sono per l’appunto fisse, statiche, prive di storia. E la storia stessa è il risultato dell’incontro e, soprattutto dello scontro, tra di loro poiché sono in costante concorrenza, in lotta le une contro le altre. Esistono razze migliori e razze peggiori, una sorta di scala gerarchica che fa sì che le prime possano legittimamente prevaricare sulle seconde. La razza ariana è, a tal riguardo, quella qualitativamente più pregiata. La ragione sta nel sangue ariano, entità e sostanza primigenia che ne costituirebbe l’essenza più intima. Va detto, ad onore di chiarezza, che questi termini (razza, sangue, popolo e così via) erano comunemente usati dai “razzisti” dell’epoca senza che il loro effettivo contenuto venisse spiegato; e questo poiché si trattava di una serie di concetti il cui spessore scientifico era pari allo zero. Il tentare di dare ad essi un qualche significato che non fosse quello funzionale all’uso politico che se ne faceva avrebbe messo a nudo la loro inconsistenza. E avrebbe quindi causato una crisi di legittimità culturale del potere hitleriano.

    La razza, secondo i nazisti, non ha a che fare con la religione o con la morale: è una condizione originaria che l’individuo non si sceglie. Se si nasce ebrei non si è tali per il culto professato dai genitori o da sé, bensì per l’appartenenza alla razza ebraica che, dal punto di vista dei nazionalsocialisti, poco o nulla c’entra con le credenze religiose e molto, invece, con le ascendenze biologiche. In questo legame, inprescindibile e insuperabile tra singolo e gruppo, si determina l’ascrittività della propria origine. Si è quel che sono i propri genitori, i nonni e, più in generale, coloro tra quanti costituiscono il proprio gruppo razziale di appartenenza. Questa condizione, si badi bene, vale non solo da un punto di vista morale ma anche e soprattutto sul piano della determinazione fisica interiore, laddove si ragiona in termini di molecole e particelle elementari. La presunta (e in realtà inesistente) diversità di costituzione biologica determinerebbe, secondo questo costrutto, profili sociali e condotte etiche differenti.

    L’uso che i seguaci di Hitler facevano del discorso antropo-biologico era palesemente mistificato ed alterato. Raccogliendo e manipolando alcuni aspetti delle scienze esatte, comunemente dibattuti in quegli anni, essi ne distorcevano a fini politico-ideologici il significato, piegandolo agli usi che erano propri di una prassi il cui obiettivo era quello di violare la dignità e l’integrità dell’altrui persona.

    La razza, così intesa, era il punto di partenza e di arrivo di ogni politica. L’essere parte della stessa comportava l’aspettativa che la persona in oggetto adempisse ai precetti politici e sociali derivanti da tale condizione. I membri della razza ariana erano tenuti alla massima conformità di comportamento; i garanti che tale fatto avvenisse erano il partito e lo stato, strumenti – nell’ottica nazista – della realizzazione del progetto di purificazione etnica dell’Europa, da raggiungere attraverso la guerra. Gli appartenenti alla razza ebraica, invece, erano vincolati a loro volta ad una serie di condotte che gli erano prescritte coattivamente: in quanto esponenti di un gruppo considerato socialmente indesiderato, dovevano vivere ai margini della società, reietti e rifiutati, in attesa che si raggiungesse una “soluzione finale” riguardo al “problema” della loro presenza. La natura di tale atto ultimativo, come poi abbiamo saputo, sarebbe stata lo sterminio fisico di tutti gli individui identificati come appartenenti alla comunità semitica.

 

    2. Pertanto i concetti di razza e totalitarismo (e la prassi politica che da essi derivava) implicavano l’inaccettabilità dell’idea stessa di minoranza. Se gli ebrei erano considerati non come espressione di una tale condizione bensì come una sorta di genere umanoide a sé stante, negazione della razzialità ariana, ovvero del complesso di caratteri positivi che a questa erano attribuiti – forza, bellezza, determinazione e così via – nel caso di quei soggetti che furono fatti oggetto di persecuzioni dal regime ma che pure appartenevano al “ceppo ariano” – omosessuali, politici, testimoni di Geova ma anche la più generica categoria dei cosiddetti asociali, cioè di quanti assumevano atteggiamenti e comportamenti censurati dalla morale dominante – è corretto parlare di minoranze. Ciò che i nazisti contestavano agli appartenenti a questi gruppi era una condotta deviante rispetto alle direttive e alle aspettative del potere in camicia bruna. Tale accusa che, una volta comprovata, comportava la detenzione in un qualche campo di concentramento, generalmente si basava su una di queste premesse:

a)     l’avere espresso e praticato idee non in sintonia con quelle del potere (i cosiddetti “politici”);

b)    l’appartenere ad un culto non riconosciuto, ovvero non riconducibile ai due gruppi maggioritari, i cattolici e i protestanti, con i quali il regime aveva raggiunto una intesa, sia pure solo temporanea ed incerta (i testimoni di Geova);

c)     il fare propri atteggiamenti e comportamenti socialmente stigmatizzati come un taglio di capelli o un abbigliamento diversi da quelli abituali oppure organizzare gruppi associativi alternativi a quelli riconosciuti ufficialmente (i cosiddetti “asociali”);

d)    l’assumere atteggiamenti sessuali censurati dall’opinione dominante (gli omosessuali ma anche taluni internati “comuni”).

    L’appartenere ad una minoranza corrispondeva, dal punto di vista del regime, all’essere in una situazione di minorità. Tale “imperfezione”, diversa dall’appartenere ad una razza non ariana (condizione, quest’ultima, immutabile), poteva e doveva essere sanata educando il “minorato” ai principi del nazionalsocialismo e chiedendogli chiara prova dell’avvenuta abiura delle opinioni, dei comportamenti, delle credenze anzitempo espresse. Nella mentalità hitleriana la concezione di una società strutturata per caste (gruppi sociali omogenei, uniti da un comune denominatore) e basata su una visione pagana della vita comportava l’esclusione totale dalla cosiddetta “comunità nazionale di popolo” di quanti non si fossero adeguati ai suoi principi ideologici. L’ossessione manifestata per il sempre eguale (i tedeschi, nell’ottica nazista, dovevano ridursi ad essere una sorta di copia estetica e culturale del calco originario: biondi, con gli occhi azzurri, alti, bellicosi, aggressivi, ideologizzati, tenaci, devoti al fuehrer fino alla morte e completamente privi di una propria soggettività morale) si traduceva nella sovrapposizione dell’identico all’identità. In altri termini: quel complesso di attributi, spesso mutevoli, che rendono un individuo – e con esso la collettività alla quale appartiene – singolo e irripetibile, era concepito dai nuovi signori della Germania come un pericolo. La diversità – valore in sé poiché ricchezza di ogni società, oltreché suo aspetto imprescindibile, irrinunciabile ed ineliminabile – doveva essere cancellata, a costo di eliminare coloro che ne erano portatori ed espressione. Esisteva una sola ed unica identità, quella ariana, basata sul vincolo del sangue. La “missione” del popolo tedesco consisteva nell’affermazione di questo principio razziale. Qualunque cosa si frapponesse a questo obiettivo doveva essere non solo contrastata ma addirittura sradicata. Per questa ragione gli appartenenti a gruppi o sodalizi differenti erano fatti immediato oggetto delle attenzioni della polizia politica e degli apparati di repressione.

Le persecuzione che a partire dal 1933, anno di ascesa al potere di Hitler, ebbero corso nei confronti dei dissidenti politici, dei “diversi” sul piano culturale, morale e religioso, dei razzialmente indesiderati – in una parola dei nemici della comunità ariana - si articolarono progressivamente, sia secondo un criterio che via via aggiungeva ai vecchi destinatari di tali violenze sempre nuove vittime, sia in base agli strumenti che nel corso del tempo venivano raffinandosi. Il campo di concentramento ne fu la sintesi estrema, una sorta di espressione ultimativa di tutto quanto il deteriore immaginario nazista riusciva a produrre sul piano della repressione della vita e, infine, a partire dalla guerra nel 1939, del suo sterminio.

    I caratteri della politica nazista contro quelli che considerava i suoi antagonisti – va ricordato che nella maggioranza dei casi si era in presenza di persone e famiglie inermi, del tutto inoffensive, perseguitate in quanto identificate come nemiche e non necessariamente in base a gesti o atti di opposizione per parte delle stesse – erano quelli propri ad una repressione sistematica e annichilente: nessuna delle vittime doveva sfuggirvi. Era una questione di principio. La sistematicità, ovvero la costanza, la continuità, la capillarità del sistema di oppressione era tale da rasentare la parodia di se stesso: in piena guerra, quando oramai le sorti della Germania erano segnate e la sconfitta si poneva all’orizzonte, gli zelanti funzionari della Gestapo si impegnavano ancora a dare la caccia agli ultimi ebrei sopravvissuti alle retate dei mesi e degli anni precedenti. Nel mentre i bombardamenti delle città tedesche si succedevano di giorno in giorno, tra le rovine fumanti, e il fronte oramai traballante e prossimo a cedere preannunciavano la fine prossima ventura, i signori della morte si muovevano con solerzia alla ricerca degli sventurati da deportare. Così fino all’ultimo dei giorni di quel regime.

    L’annichilimento presupponeva e al contempo causava la distruzione morale e fisica delle vittime. Nel circuito repressivo nazista chi vi entrava non doveva più uscirne. Era il principio basilare di quella che è stata molto opportunamente definita una pedagogia dell’annientamento. Lo strumento principe di questa “educazione al rovescio” – foriera di morte invece che di vita – era per l’appunto il lager, ovverosia il campo di concentramento. La sua intima natura, l’organizzazione interna, i tempi e i modi attraverso i quali veniva scandita la quotidianità degli internati erano quelli propri ad un sistema dove l’individuo subiva prima un processo di degradazione (privazione degli abiti, annullamento dell’identità personale, sottoposizione al lavoro forzato, somministrazione di punizioni corporali spesso del tutto arbitrarie e violente) per poi successivamente soccombervi fisicamente. L’annientamento era prima di tutto morale, poi materiale. Nessuna possibilità di liberazione si poneva nell’orizzonte degli infelici che vi erano trattenuti se non quella della morte.

    La politica nazista di oppressione delle minoranze e di sterminio degli ebrei e degli zingari aveva un carattere radicale. Come in una sorta di gioco d’azzardo, dove di giro in giro la posta in gioco si fa sempre più alta, dalle iniziali misure si passò, passo dopo passo, alla creazione di un circuito sempre più esteso di campi, un vero e proprio universo concentrazionario.

 

    3. E’ all’interno d’esso che trovano attuazione le misure più disumane e violente. Ed è in questo autentico buco nero che, tra gli altri, vengono precipitati i Bibelforscher, gli “studenti della Bibbia”. Già a partire dal 1933 erano stati fatti oggetto delle attenzioni da parte del regime. E’ infatti in quell’anno, e per la precisione il 24 luglio, che tale culto viene messo fuori legge, dopo esserlo stato nell’aprile in Baviera. Nella decisione avevano inciso più fattori e non da ultima l’avversione che sia la Chiesa Cattolica che quella Luterana nutrivano nei confronti di un credo reputato avverso e concorrente, soprattutto in ragione della sua azione a favore del proselitismo. Per parte loro i nazisti guardavano con timore la propensione di questa congregazione ad organizzare grandi raduni di massa, intollerabili per un partito che intendeva occupare tutti gli spazi di socialità disponibili. A ciò inoltre si aggiungeva la manifesta indisponibilità nei confronti di una comunità religiosa irriducibile alle forme di mediazione e compromesso cui gli altri culti si rivelavano disponibili nei confronti dei nuovi dominatori. Peraltro già nel mese di giugno dello stesso anno era stato fatto divieto della pubblicazione e diffusione della Torre di Guardia. All’epoca i Testimoni di Geova tedeschi erano circa 25.000: di essi, negli anni successivi, almeno 2.000 furono deportati ed internati nei campi di concentramento, dove 635 morirono di stenti e per le violenze subite; 235 furono invece condannati a morte (e 203 effettivamente giustiziati); 1687 persero il lavoro e 6019 subirono gli arresti o misure di limitazione della libertà personale; 860 bambini, infine, furono strappati alle loro famiglie naturali per essere consegnati a genitori adottivi ideologicamente affidabili, coerenti con i “principi” ariani.

    Se in un primo tempo i Testimoni di Geova sembrarono non esercitare una opposizione di principio al regime, addivenendo addirittura ad una prima Dichiarazione (25 giugno 1933) – peraltro sottoscritta sotto l’incedere tumultuoso degli eventi e della condizione di costrizione di fatto che l’espansione a macchia d’olio del regime imponeva a quanti ne dovevano subire la sua violenta giurisdizione - nella quale affermavano di non volersi contrapporre aprioristicamente contro il nuovo regime e di condividerne l'ostilità contro il bolscevismo, contro la Chiesa intesa come autorità politica oltreché ribadendo la propria estraneità nei riguardi dell'ebraismo, con il passare del tempo le cose mutarono e sensibilmente. Il vero punto di non ritorno era costituito dalla riaffermazione dal credo fondamentale della denominazione, ovvero l'adorazione di Geova Dio e dal disconoscimento del potere secolare quand' esso fosse, nei suoi fini e nei suoi mezzi, in contrasto con quanto l'insegnamento delle Scritture prescriveva ai buoni cristiani. Quel che lo stesso gruppo dirigente dei Bibelforscher non poteva sapere era che i nazisti non intendevano permettere alcunché a chicchessia, un regime che chiamava tutto e tutti in causa, impegnato com’era a distruggere qualsivoglia forma di organizzazione umana, individuale e collettiva, che non fosse omologabile all’interno delle sue strutture. Il tentativo di arrivare ad una qualche forma di chiarificazione della propria posizione riguardo alla mutata situazione dei fatti attraverso la Dichiarazione del ’33, infatti, ben presto si infranse contro la situazione di fatto che andava determinandosi. L’unica opzione accettabile, dal punto di vista di questi ultimi, era l’autoestinzione della denominazione cristiana. Peraltro il giudizio che il regime formulava sui Testimoni di Geova era connotato da una estrema radicalità: questi erano definiti come dei “giudaizzati” (poiché adottavano e leggevano l’Antico Testamento), facenti parte di un “movimento internazionale”, come tale cospirativo ed antitedesco, di “radice marxista”. Il paradosso stava nel fatto che la deliberata e conclamata non politicizzazione giocava a sfavore dello stesso culto poiché in ciò gli uomini di Hitler leggevano la vocazione ad una opposizione totale (in quanto di principio e non poiché politica). Quando nel 1935 il regime reintrodusse la coscrizione obbligatoria, imponendo a tutti i giovani tedeschi di prestare il servizio di leva, in previsione della guerra prossima ventura, il netto rifiuto per parte dei Bibelforscher fu percepito da parte delle autorità, militariste e belliciste alla radice, come un attacco al cuore dello stato germanico. Parimenti può dirsi del diniego nei confronti del saluto obbligatorio, quell’ “Heil Hitler” che sostituì il più prosaico ma neutrale “buongiorno”. Tra il 1936 e il 1937 le autorità operano una prima ondata di arresti. Se fino ad allora le ostilità nei confronti dei membri della denominazione erano state il prodotto delle scelte, individuali o collettive, delle milizie naziste, ora ad intervenire erano le istituzioni pubbliche nazificate. La loro azione era la risposta ad una chiara indicazione politica, proveniente dalle più alte sfere, volta a “sradicare” la presenza di un movimento religioso la cui stessa natura era concepita come un’offesa alla potestà e alla maestà della nuova “comunità di popolo”, raccolta intorno al fuehrer della “nuova” Germania. La congregazione, per parte sua, non prese neanche in considerazione l’opportunità di cessare o di attenuare le proprie attività e le iniziative a favore del proselitismo. Questa pervicacia esponeva i membri all’azione repressiva, congiuntamente esercitata sul piano formale dai giudici nelle aule dei tribunali e su quello informale dagli scherani e dai pretoriani nazisti nelle strade del paese. Quel che è significativo – in questa vicenda come in altre – è che i Testimoni furono progressivamente privati dei loro diritti civili e fatti oggetto di violenze e persecuzioni attraverso un sistema fondato sulla legalizzazione dell’arbitrio. La repressione esercitata dalle autorità si rifaceva ad un fondamento ideologico e ad una trasposizione giuridica che si basava sul rispetto della parvenza di legalità. Poiché il crimine istituzionalizzato, se dovevano avvenire, necessitava che rispondesse “a norma di legge”. C’è di che interrogarsi su cosa fosse divenuta la Germania in quegli anni.

 

    4. L’involuzione degli eventi, il parossistico incremento della pressione esercitata dalle strutture del regime contro quanti erano da esso ritenuti i suoi nemici, la chiusura di ogni spazio di libera espressione, il succedersi di disposizioni e di pratiche liberticide furono tra le ragioni che, sommate agli arresti di cui si è già fatta menzione, determinarono i Bibelforscher ad assumere una posizione di netto rifiuto nei confronti del nazionalsocialismo. Già nel 1935 l’originario bando era stato riemanato mentre la vigilanza poliziesca era stata ulteriormente potenziata. All’epoca appartenere alla denominazione cristiana comportava il rischio di essere assoggettati ad una serie di misure fortemente restrittive della propria libertà ed autonomia: il licenziamento dal posto di lavoro, la perdita dei diritti alla pensione, la sottrazione dei figli e la “giusta causa” nei procedimenti di divorzio.

    La Convenzione di Lucerna, nel settembre dl 1936, perviene alla condanna del regime nazista. La storia successiva è nella sua sostanza nota. Con l’approssimarsi della guerra e il suo realizzarsi l’inasprimento delle misure persecutorie culminò nella deportazione e nell’internamento di quanti erano identificati come titolari di una fede che non fosse quella nazista. Benché i Testimoni di Geova non fossero e non siano mai stati degli oppositori politici, non almeno a stretto giro di logica se con ciò si intende una intenzionalità manifesta, né tantomeno un gruppo considerato “razzialmente ostile, il fatto stesso che avessero deciso di non prescindere dal proprio credo li collocava immediatamente in rotta di collisione con gli apparati del regime. Quest’ultimo contestava ad essi essenzialmente due cose:

a)     il non essere dei “buoni ariani” (una specie di infrazione contro la maestà della razza);

b)    l’avere mantenuto un atteggiamento prima di neutralità poi di rifiuto nei confronti dei nuovi poteri (reato considerato più propriamente politico).

Le radici dell’opposizione esercitata dalla denominazione può essere così riassunta:

a)     il credo rigorosamente pacifista e serenamente antibellicista;

b)    il totale rifiuto di una autorità dittatoriale anticristiana, vocata alla propria autodeificazione;

c)     la considerazione di Hitler come di una “bestia dell’Apocalisse”, in accordo con la lettera delle Sacre Scritture;

d)    l’adesione all’irrinunciabile principio che si ubbidisce a Dio e non agli uomini quando le ingiunzioni di costoro sono inique.

    Un’opposizione morale e religiosa, come si avrà modo di osservare, che diventa a tratti politica nel momento in cui è lo stesso regime a costringere i Bibelforscher ad una scelta in tal senso. Il comportamento di questi ultimi si inquadra nel più complesso fenomeno della Resistenza civile che animò l’Europa di quegli anni, sottoposta ai regimi fascisti e nazista. Se ci fu chi si oppose armi alla mano contro gli usurpatori e i conculcatori delle libertà, molti altri posero in atto iniziative e azioni, più o meno esplicite ed organizzate, caratterizzate dal non implicare l’uso di strumenti d’offesa. Nel caso dei Bibelforscher la resistenza al regime fu sempre e comunque disarmata, caratterizzata da una forte vocazione testimoniale.

    Quindi, se agli ebrei veniva contestata la colpa di esistere, ai politici la responsabilità dell’opposizione, agli “asociali” il marchio della differenza, ai Testimoni di Geova era attribuita la colpa di testimoniare.

    Da questo punto di vista va detto che il fenomeno dell’oppressione nazista dell’Europa si caratterizzò per un unico denominatore – la volontà di distruggere ogni forma di vita che non fosse omologabile al suo progetto politico e demografico – ma anche per la pluralità di forme attraverso le quali si realizzò. I destini non erano identici: nel circuito dei lager, anello terminale della lunga catena di vessazioni e persecuzioni, la sorte peggiore era senz’altro quella assegnata ai deportati razziali e ai prigionieri di guerra sovietici, destinati comunque alla morte. Ciò nulla toglie alle sofferenze subite dagli altri internati. Di ognuno d’essi va invece indagata - e ricostruita – la specificità dell’esperienza vissuta in quei terribili luoghi. In essi i deportati religiosi costituivano un piccolo e compatto gruppo, coeso e collaborativo nei confronti degli altri infelici. La loro condotta, informata all’ordine, alla pulizia, alla perseveranza e alla disciplina mantenute nelle baracche nelle quali erano alloggiati, era determinata dagli intimi convincimenti che li animavano. Ragion per cui mai cooperarono con i gruppi illegali e si rifiutarono sempre di fuggire dai campi o di adoperarsi per una resistenza attiva nei confronti delle autorità penitenziarie. Ciò ha ingenerato l’accusa, neanche troppo sottile, di essere stati acquiescenti nei confronti dei loro persecutori. Eppure, proprio in virtù di quel pluralismo che è proprio all’esperienza delle deportazioni, è bene ricordare che se diversi erano i motivi per i quali si veniva internati differenti erano anche i modi con i quali si viveva tale evento, senza che ciò debba immediatamente ingenerare una scala di giudizi per la quale certe vittime diventano quasi corresponsabili di quanto avvenne loro. C’era una deportazione di natura politica – coinvolgente soggetti attivamente impegnati nella lotta contro il nazismo; una di origine razziale – riguardante individui, famiglie ed intere comunità caratterizzate per la presunta appartenenza alla cosiddetta “razza”; una legata a motivi di ordine sociale e morale – concernente gli omosessuali, gli “asociali”, i praticanti i culti non ammessi; una connessa all’internamento dei militari appartenenti alle nazioni in lotta contro la Germania nei confronti dei quali quest’ultima non applicava la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra – soprattutto i sovietici e poi, a fare dal settembre del ’43, anche gli italiani; ed infine una deportazione di soggetti definiti “comuni” – perlopiù criminali abituali trasferiti dagli istituti di detenzione nei lager.

    Solo unendo le tantissime storie si può avere un quadro sufficientemente unitario delle vicende di quegli anni, formulando così un giudizio che nessuno escluda sulla scorta di preclusioni morali e culturali. I Testimoni di Geova vissero quella terribile esperienza come una prova del proprio credo. Furono saldi poiché non vennero mai meno ai loro principi, a rischio della vita, come ci testimonia – tra le tante – la storia di Narciso Riet, assassinato dai suoi persecutori in camicia bruna dopo una quantità inenarrabile di vessazioni e brutalità. Gli sarebbe bastato firmare il modulo di abiura per aver salva l’esistenza e potere aspirare alla libertà. Ma in cuor suo aveva deciso che l’unica libertà degna d’essere vissuta era quella che avrebbe potuto scegliere in accordo con i suoi intimi convincimenti religiosi.

    Una testimonianza, questa, che è al contempo anche martirio e che ci parla della contemporaneità di quei gesti, che ci appartengono in quanto espressione, nella loro singolarità, dell’anelito collettivo alla libertà di coscienza. Peraltro, non a caso il regime nazista uscì sconfitto dalla terribile guerra che esso stesso scatenò. Segno ultimo che il dominio belluino senza consenso è destinato a non durare oltre quella che è la sua breve esistenza storica.

 Claudio Vercelli

 Claudio Vercelli, storico e pubblicista, è ricercatore presso l’Istituto di studi storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto di ricerca e formazione sugli “Usi della storia, usi della memoria”. Ritorna



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Vedi anche: La natura dell'oppressione nazista e fascista contro i testimoni di Geova in Italia e Germania e la loro deportazione. Claudio Vercelli. Febbraio 2002


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