Triangolo Viola - Il sito

Questa pagina è dedicata ad alcune citazioni da libri che hanno toccato il dramma dei triangoli Viola


Citazioni da:

Citazioni dal libro: "L'ordine del terrore"
Il campo di concentramento
di Wolfgang Sofsky (Editori Laterza - Bari 1995)


Il libro di Sofski rappresenta una delle più puntuali analisi della psicologia che sta alla base dello sterminio messo in atto dai nazisti. Un testo che aiuta a capire le dinamiche e le trasformazioni nel comportamento di chi è posto davanti all'orrore, sia che lo eserciti, sia che lo subisca. Con un linguaggio semplice, Sofski entra nel lager e ci aiuta a comprendere i meccanismi mentali, il sadismo, le crudeltà di uomini che in altre situazioni della vita sarebbero forse stati delle persone normali. Durante gli studi sui campi di concentramento nazisti, il sociologo Sofsky, osservò, quanto è stata potente la forte fede dei prigionieri per la sopravvivenza e la resistenza alle atroci crudeltà a cui erano sottoposti. Wolfgang Sofsky è nato nel 1952 in Germania. E' professore di Sociologia e vive a Gottinga. In Italia ha pubblicato Saggio sulla violenza (Torino 1998) e Il paradiso della crudeltà (Torino 2001).


Dal libro "L'ordine del terrore" di Wolfgang Sofsky
 
"Altrettanto raro era il martirio. I soli che si possono definire a ragion veduta martiri erano gli oppositori del regime più politicizzati e i testimoni di Geova, questi ultimi perseguitati a causa della loro obiezione totale al servizio militare e del rifiuto incondizionato ad abiurare la loro fede. Per quanto riguarda tutti gli altri prigionieri, nessuno di essi avrebbe potuto salvarsi rinnegando qualcuna delle proprie convinzioni." (Pag. 36)

"Più resistenti erano senza dubbio le convinzioni religiose. Le religioni offrono modelli interpretativi mediante i quali gli eventi del presente possono venire inquadrati in un orizzonte di aspettativa e spiegati alla luce di un futuro immaginario. La fede nella salvezza per mezzo della Grazia divina, la fiducia negli effetti salvifici delle pratiche religiose, della preghiera e delle funzioni sacre, la prospettiva di una vita futura, sono tutte cose che aiutano a dare un senso alla sofferenza e, quindi, ad attenuarla… Così, nei campi di concentramento il possesso di ferme convinzioni religiose non solo rafforzava la volontà di sopravvivenza, ma aiutava a preservare la persona morale e a spostare l'orizzonte dell'esistenza al di la dell'immediato presente. Non pochi prigionieri dovevano la loro resistenza proprio alla saldezza della loro fede o al senso di comunanza che si stabiliva fra correligionari: non solo i testimoni di Geova o i preti isolati di Dachau, ma anche alcuni gruppi di ebrei e di cristiani polacchi, francesi oppure olandesi, riuscirono a costruire un efficace baluardo di solidarietà e di opposizione contro i processi dissociativi indotti dal terrore." (Pagg. 137,8)

"Gli stranieri in quanto tali erano considerati nemici politici "naturali", mentre i testimoni di Geova, i comunisti e i socialdemocratici tedeschi erano visti soprattutto come nemici ideologici, da perseguitare non per la loro appartenenza razziale o nazionale, ma per le loro idee religiose e politiche." (Pagg. 178,9)

"Una sorte simile toccò ai testimoni di Geova. Benché pochi di numero, le SS attribuivano a questi detenuti un'influenza maggiore di quella che in realtà avevano. Per molti anni essi vennero perseguitati assai duramente a causa del loro coerente atteggiamento di resistenza passiva:per rompere la loro solidarietà si decise di sparpagliarli in blocchi diversi, ma poi si dovette fare marcia indietro quando ci si accorse del pericolo rappresentato dal loro attivismo "missionario" all'interno delle camerate. Poiché la resistenza passiva dei testimoni di Geova era rivolta soltanto contro quegli ordini che erano inconcepibili con le loro concezioni religiose, le SS decisero alla fine di mettere a frutto il loro senso del dovere e la loro affidabilità, promuovendoli nei gradi superiori della gerarchia e utilizzandoli come tuttofare nel settore delle SS o come guardiani di piccole squadre di lavoro più esposte al rischio di fughe. A Ravensbrück vennero impiegati come "detenuti modello" da presentare alle commissioni d'inchiesta esterne, mentre a Niederhagen, l'ultimo lager dove i testimoni di Geova costituivano il gruppo più consistente della popolazione carceraria, lavoravano alla ristrutturazione del Wewelsburg, uno dei castelli dell'"ordine mistico" delle SS." (Pag. 181)

"La divisione in classi imposta dall'alto suggeriva e accentuava una determinata immagine dell'altro, sicché ogni detenuto con il triangolo nero finiva con l'essere considerato effettivamente un essere asociale, inetto, codardo e sporco, ogni criminale una persona pericolosa, brutale e violenta, ogni testimone di Geova un individuo zelante nel lavoro, ordinato e dalle inflessibili convinzioni religiose." (Pag. 183)

"L'appartenenza coatta a un gruppo non generava affatto un senso di vera comunanza, la coesione interna dei testimoni di Geova, dei repubblicani spagnoli o dei soldati sovietici era un dato che preesisteva all'esperienza dei lager." (Pag. 185)

"Appartenere a una classe anziché a un'altra era spesso condizione sufficiente per essere assegnati alle squadre di lavoro più dure: a Gusen e Mauthausen per la costruzione del lager e per lo sfruttamento delle cave di pietra vennero destinate in blocco intere categorie di reclusi: nel 1939 tutti gli "zingari", nel 1940 tutti i testimoni di Geova, i polacchi e gli ebrei, nel 1941 e 1942 tutti gli ebrei e soldati russi, e la maggior parte dei polacchi, degli spagnoli e dei cecoslovacchi, nel 1943 tutti gli Sver, gli jugoslavi, i russi e gli ebrei." (Pag. 186)

"Come servitori personali le SS preferivano i testimoni di Geova, mentre per i lavori nei laboratori artigianali, per la cura dei detenuti ricoverati nelle infermerie e per la redazione degli atti amministrativi ricorrevano di preferenza ai detenuti politici." (Pag. 187)

"Dopo il processo di internazionalizzazione della popolazione carceraria seguito allo scoppio della guerra, lo stato medio-alto (II) fu composto dagli "asociali" e dai testimoni di Geova tedeschi, nonché dai cecoslovacchi e dai nordeuropei, e dal 1943 anche dai repubblicani spagnoli. Questi gruppi dovevano la loro posizione relativamente favorevole o alla più lunga esperienza carceraria, o alla protezione concessa dai "notabili" e dalle SS, o alle loro doti "organizzative". (Pag. 191)

 


Citazioni dal libro: "I sommersi e i salvati"
L' intellettuale ad Auschwitz 
Primo Levi (Einaudi) Torino 1986. 14^ ristampa 2001

Recensione di Claudio Vercelli


Primo Levi

Il libro di Levi è un capolavoro della riflessione morale novecentesca. Da questo punto di vista sopravanza la ragione stessa per cui è stato scritto - la riflessione sul fenomeno lager e sulla vocazione al male di certuni - per assurgere a pietra miliare nell'esercizio dell'umana comprensione. Ha ragione chi, tra gli studiosi (ad esempio Alberto Cavaglion), sostiene che l'obiettivo umanistico ed etico di Levi è quello di cogliere le virtù della medietà nei luoghi dell'estrema desolazione. In lui la lotta della vita contro la morte è un dato persistente, continuativo. Ha vissuto l'esperienza della deportazione come essere umano, prima che come ebreo o politico o quant'altro. E, malgrado tutto, è riuscito a preservare il nocciolo di umanità che gli era proprio, coniugando la sua cultura letteraria a quella scientifica e salvando spirito e corpo, almeno fino al giorno in cui levò la mano su di sé. 

Io l'ho conosciuto, da buon torinese quale mi reputo essere, e mi colpì fin da subito la pacatezza del giudizio che manifestava anche quando gli venivano posti quesiti sulla sua esperienza a Buna-Monowitz (Auschwitz III) e sui suoi persecutori. Non c'era mai rabbia, semmai indignazione. Nessun giudizio precostituito, molta disponibilità a comprendere (che è cosa diversa dal giustificare). Stimava oltremodo molti dei suoi compagni di prigionia. Ed anche questo è il segno della sua felice "diversità". "I sommersi e i salvati", fors'anche più di un altro capolavoro, "Se questo è un uomo", meriterebbe d'essere annoverato tra i dieci libri più importanti dell'umanità. 

Claudio Vercelli 


[...] Per un istante ho provato il bisogno di chiedere aiuto ed asilo; poi nonostante l'angoscia ha prevalso l'equanimità: non si cambiano le regole del gioco alla fine della partita, né quando stai perdendo. Una preghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda (quali diritti potevo rivendicare? e da chi?) ma blasfema, oscena, carica della massima empietà di cui un non credente sia capace. Cancellai quella tentazione: sapevo che altrimenti, se fossi sopravvissuto, me ne sarei dovuto vergognare.

     Non solo nei momenti cruciali delle selezioni o dei bombardamenti aerei, ma anche nella macina della vita quotidiana, i credenti vivevano meglio: entrambi, Amery ed io, lo abbiamo osservato. Non aveva alcuna importanza  quale fosse il loro credo, religioso o politico. Sacerdoti cattolici o riformati, rabbini delle varie ortodossie, sionisti militanti, marxisti ingenui od evoluti, Testimoni di Geova, erano accomunati dalla forza salvifica della loro fede. Il loro universo era più vasto del nostro, più esteso nello spazio e nel tempo, soprattutto più comprensibile: avevano una chiave ed un punto d'appoggio, un domani millenario per cui poteva avere un senso sacrificarsi, un luogo in cielo o in terra in cui la giustizia e la misericordia avevano vinto o avrebbero vinto in un domani millenario forse lontano ma certo [...] Op.citata p.118


Citazioni dal libro: 
"Ach Gott vom Himmel sieh darein-Sechs Predigten"

 (O Dio, guarda dal cielo - Sei sermoni). di Martin Niemöller


"Ach Gott vom Himmel sieh darein. Sechs Predigten,", Martin Niemöller,  Munche: Chr. Kaiser Verlag, 1946, 27-28.

Nell’insieme, durante l’intero periodo nazista, solo circa 900 cristiani Protestanti (incluso clero e laicato) furono arrestati e condannati per la loro resistenza basata sulla fede. Trascorsero tempo in prigione e in campi di concentramento e dodici condanne a morte furono eseguite per ragioni religiose. Notevole, in questo piccolo gruppo, fu la figura sempre attiva del ministro e teologo Martin Niemöeller (1892-1984), una figura di spicco della Chiesa Confessionale. Nell’autunno del 1933, quando fu introdotto nelle chiese il cosiddetto “Paragrafo Ariano”, egli fondò il "Pfarrernotbund,", un’organizzazione per assistere i membri del clero, che venne in aiuto di oltre 6.000 ministri quello stesso anno. Nel 1937 egli fu mandato in un campo di concentramento, dove restò sino alla fine del regime nazista. Qui fu testimone della capacità di ripresa dei Testimoni di Geova. Nel suo libro scritto poco dopo la fine della guerra egli ricorda:

"La colpa delle guerre combattute dall'umanità è forse da attribuirsi a Dio? "No, Dio non vuole la guerra. Chiunque voglia dare a Dio la colpa [delle guerre] non conosce, o non vuole conoscere, la Parola di Dio. Naturalmente, che noi cristiani abbiamo una buona parte di colpa o no nelle incessanti guerre è un'altra faccenda. E non possiamo evitare tanto facilmente questa domanda. . . . Si può anche ricordare giustamente che nel corso dei secoli le chiese cristiane sono state pronte, ripetutamente, a benedire guerre, soldati e armi e che hanno pregato in modo assolutamente non cristiano per l'annientamento degli avversari in guerra. Tutto questo è colpa nostra e colpa dei nostri padri, ma certo non di Dio. E noi cristiani odierni ci vergogniamo davanti a una cosiddetta setta come quella degli Zelanti Studenti Biblici [Testimoni di Geova], i quali a centinaia e a migliaia sono finiti nei campi di concentramento e sono [perfino] morti per aver rifiutato di prendere parte alla guerra e di uccidere altri uomini". [op. cit.]


L’odore del fumo e il colore del dolore
di Claudio Vercelli

Recensione del volume di Raffaele Mantegazza, L’odore del fumo. Auschwitz e la pedagogia dell’annientamento, Città Aperta Editore, Enna 2001 pagg. 204 lire 25.000  

Seguono alcune citazioni

Raffaele Mantegazza.

C’è un punto della terra…in cui le persone spariscono, le famiglie si dividono e vengono distrutte, i corpi divorati, i significati annullati. C’è un punto della terra…in cui regna sovrano il silenzio, in cui le voci si azzittiscono, in cui si sentono gracidare solo i corvi ed anche loro sembrano di troppo. C’è un punto della terra…dove tutto pare tornare all’origine, dove lo sguardo vede un orizzonte infinito e sterminato, dove il gelo è tutto, la nebbia è compagna di interminabili giornate senza fine e il sole, quando c’è, è così tremulo e timido da ergersi come un pallido disco, spento ed incolore, triste ed incalore. C’è un punto della terra…dove regna la polvere; ma non dei luoghi bensì di persone è fatta quella polvere. C’è un punto della terra…dove i sorrisi si spengono, uomini e donne si svaporano, i sensi si perdono. C’è un punto della terra…al quale siamo inesorabilmente chiamati ma dal quale vorremmo fuggire una volta per sempre. E’ il luogo della consunzione di carni e oggetti, fornace di storie, officina di dolori, cimitero di speranze, desideri e significati.

Come narrare la morte che non parla? Dice il poeta che “il sorriso freddo, pallido e lunare che il raggio di una meteora di una notte senza stelle versa su un’isola solitaria e cintata dal mare, prima della luce indubitabile del sorgere del giorno, è la fiamma della vita tanto instabile e languente che aleggia intorno ai nostri passi finché la forza è finita”. E dice Giuliana Tedeschi - deportata e sopravvissuta ad Auschwitz - che ogni qualvolta, trovandosi a camminare per le vie della sua beneamata Torino, le capita di incontrare l’ombra del camino di una ciminiera il passo le si arresta, la testa le si fa pesante, l’equilibrio incerto. E deve appoggiarsi a qualcosa o qualcuno, riprendere il respiro che sembra esserle fuggito, recuperare le forze che paiono essere svanite, ripristinare il senso della vita dal suo subitaneo annichilimento. 

"L'odore del fumo". Gabriel Mantegazza. Clicca qui per visualizzare la copertina completa.

E’ questo ciò che prova al nudo pensiero di quella storia. Si rimane zitti al solo gesto di fare memoria di quelle tenebre. E la lingua ci si secca in gola se proviamo a verbalizzarne il senso, a dotare quegli eventi di un ordine, una chiave di comprensione. In fondo non possiamo farne a meno ma non siamo capaci di procedere innanzi. Poiché quei luoghi ancora oggi – o fors’anche oggi più che mai – ci guardano così come noi li guardiamo, ci sfidano a nominarli sapendo che noi non abbiamo un vocabolario adeguato per definirli, ci impongono d’interpretarli non dandoci alcunché per coglierne l’intima “ragione”. Quel che sappiamo è solo che la ragione è bruciata sulle pile dei corpi accatastati e noi siamo rimasti soli con noi stessi, orfani di speranze e convincimenti.

Raffaele Mantegazza, giovane ricercatore dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, educatore e pedagogo, animatore di un intelligente ed ambizioso progetto di ricerca sulla “pedagogia della resistenza” il cui obiettivo è di individuare strategie e metodologie di opposizione nei confronti di qualunque tipo di dominio, tanto più se barbaro e totalitario, si è cimentato nella ciclopica impresa di costruire un percorso di significati, una intelaiatura concettuale all’interno della quale inserire la vicenda del sistema concentrazionario e la Shoah. Il suo impegno intellettuale - e ciò di cui andremo parlando ne è testimonianza - è costantemente volto a fornire ai più giovani, a quanti per condizione anagrafica e culturale si trovano privi di punti di riferimento, la strumentazione critica per affrontare il proprio presente facendo buon uso del comune passato. E per raggiungere questo obiettivo sa di dover passare attraverso un pubblico più “adulto”, quello dei formatori per eccellenza – insegnanti, docenti, educatori e così via – ai quali è demandato l’impegno di dotarsi di una legenda, di una serie di attrezzi concettuali, per decifrare le carte che la storia, ma anche le vicende a noi coeve, ci presentano nella loro babelica indecifrabilità. La sua ultima fatica, un volume dal titolo “L’odore del fumo. Auschwitz e la pedagogia dell’annientamento” (Città Aperta Editore, Enna 2001), rappresenta un po’ l’epitome, la sintesi di un lavoro il cui stato d’istruzione è tale da dirci che è un progetto ancora aperto. Rivolgendosi alla due generazioni che sono nate e cresciute “dopo Auschwitz”, ma della cui ombra fanno quotidiana esperienza, si confronta con l’urgenza di costruire una pedagogia antitotalitaria. Poiché l’universo dei lager, lungi dall’esaurirsi nella sua semplice manifestazione fattuale, nella sua apparente determinazione storica, circoscritta a luoghi e tempi determinati, rappresenta un modello di organizzazione sociale riproducibile e ripetibile. Il nodo irrisolto tra barbarie e modernità fa da cornice a questo scempio delle passioni e dei corpi e ci dice che l’unica lezione che può essere tratta da quelle vicende è “quel che è stato potrà ancora essere”. Ragion per cui l’unico antidoto è la coscienza vigile e partecipe del cittadino formato e consapevole, quella linea della resistenza la cui attivazione fa la differenza tra il consenso informato dei singoli che si traduce in democrazia diffusa dall’alienazione imbelle e imbecille degli schiavi incoscienti.

L’odore del fumo si articola in cinque passaggi fondamentali: nel primo ci si interroga sulla natura e la realizzabilità di una pedagogia civile su Auschwitz di contro alla pedagogia di Auschwitz, quella praticata dai carnefici, che è prassi di annientamento. Si raccontano le difficoltà che sono proprie ad un tale esercizio ma si parla anche della sua necessità ed imprescindibilità. Il secondo momento si addentra nelle ombre e nelle nebbie dei poteri autoreferenziali, quegli ordinamenti la cui natura implica il lager come effetto non secondario bensì come elemento istitutivo del comando politico stesso. La terza stazione di questo cammino è dedicata alla struttura dei campi, alla comprensione delle logiche che animavano quei siti. Di essi se ne coglie la funzione paradigmatica, ovvero l’essere dei dispositivi attraverso i quali si ordinano i corpi e si distruggono le libertà. La quarta porta ci mette in contatto con i bambini che furono ingoiati dal mostro bruno, se ne disegna una fisionomia, si indaga su quei corpicini ridotti ad angeli scheletrici e, laicamente, se ne celebra la memoria con deferente omaggio. L’ultimo capitolo ci introduce al tema della resistenza – quella di allora come quella di oggi - di cui se ne parla nei termini del suo significato, delle sue molteplici manifestazioni e della sua essenzialità per qualsivoglia progetto, politico o pedagogico che voglia essere.

Mantegazza ha scritto un libro bello e sagace, di grande attualità. L’invito è a leggerlo ma, soprattutto, ad usarlo come vocabolario del nostro presente. Poiché i libri sono creati per essere usati. Chi non ha capito ciò li brucia e con essi brucia anche sé, il suo futuro, il suo destino.

Claudio Vercelli 


Raffaele Mantegazza insegna presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Milano Bicocca. Si occupa di un progetto denominato "Pedagogia della resistenza" che cerca di individuare le strategie e le metodologie pedagogiche di resistenza e opposizione nei confronti di qualunque tipo di dominio. E' formatore di insegnanti ed educatori. E' autore di diverse pubblicazioni.

Raffaele Mantegazza è' stato relatore il 13 gennaio 2001 presso il Centro Congressi della Provincia di Milano durante l'incontro: "La persecuzione nazista dei testimoni di Geova".

Nel suo libro L’odore del fumo. Auschwitz e la pedagogia dell’annientamento, nelle pagine da 50 a 52 si legge: "...abbiamo poi i Testimoni di Geova o Bibelforscher, gli unici ad essere messi di fronte alla possibilità di liberazione a seguito della pubblica abiura della propria fede, scelta operata da un numero irrisorio di Testimoni... Sarà facile notare che tutte queste categorie [comunisti, omosessuali, Testimoni di Geova, zingari, asociali e criminali comuni] sono in realtà state oggetto da secoli di discriminazione e di violenza, e che lo sono ancora oggi. Il nazismo sembra non aver inventato proprio nulla, nemmeno gli obiettivi da liquidare; semmai la sua grandezza criminale sta nel non aver operato una parentesi nella razionalità occidentale, ma nell'aver teso al punto di massima torsione le categorie e i pregiudizi che già aveva trovato nella sua strada. La specificità del nazismo, dunque, non la dobbiamo cercare nella definizione delle vittime, ma nella peculiare pedagogia dello sterminio messa in atto dai carnefici, e non soltanto da Hitler, dalla burocrazia statale, dall'apparato del partito, ma anche dalla grande industria, dai professionisti (giudici, medici, avvocati), dalla gente comune, dai governi non tedeschi, dai volontari non tedeschi, sotto gli occhi complici degli spettatori: le nazioni neutrali, le potenze alleate, le organizzazioni ebraiche, la stampa, le organizzazioni umanitarie, le chiese". [op.cit.]

Pagine 168, 169

[...] Iniziando una categorizzazione delle strategie di resistenza, partiamo da quelle che potremmo definire strategie di nominazione; nominare un oggetto, un ente, un individuo significa in un certo senso ri-metterlo al mondo, acquisirlo come dato della coscienza e dunque conferirgli un nuovo statuto di realtà; nominare il nemico o l'amico con estrema precisione significa depurare le denunce dal carattere astratto  che spesso hanno e contemporaneamente rendere  più constatabile  e padroneggiabile la dimensione di potere che nel nemico si incarna. [...] Anche nel campo di quelli che possiamo definire "disimpegni verbali", ovvero tentativi di prendere verbalmente le distanze dal potere e dal dominio, è presente l'attività di nominazione dell'amico e del nemico: ad esempio dichiararsi "comunisti", "Testimoni di Geova", "cattolici dissenzienti", eccetera significa mantenere ben in vita e in evidenza, attraverso il nome , quelle organizzazioni che l'avversario ha sciolto con la forza; e il semplice fatto di nominarle che non solo le rende in qualche modo presenti (e questo per i cristiani ha un forte senso evangelico:"Quando due o tre sono riuniti nel mio nome"), ma contribuisce anche a smascherare il regime ricordando concretamente le sue malefatte e il tentativo da esso compiuto  di mettere a tacere le voci del dissenso...[op. cit.]


Citazioni dal libro: 
Hitler e il nazismo
pp.48,49 Tascabili Economici Newton, Roma, 1994
di
Claude David

Le fonti prossime

Prima del 1933, la letteratura nazionalsocialista propriamente detta è molto esigua: a parte il Mein Kampf, che è un libro di memorie e una diatriba politica più che un'opera teorica, non si può citare quasi altro che Il mito del XX secolo, di Alfred Rosenberg* (1931), in cui si compendia l'ideologia del Partito.

Questo libro, tirato in oltre un milione di copie, è una serie di elucubrazioni storiche, "filosofiche", mitologiche che prosegue apertamente il pensiero di H.S. Chamberlain, anche se in modo ancor di più dilettantesco, Tutta la storia del mondo occidentale è il conflitto fra la razza ariana e la razza semitica. la Grecia, nel periodo del suo maggior splendore, incarna lo spirito nordico; ma con Socrate si introduce un elemento estraneo, nel momento in cui il culto siriaco di Dioniso distrugge il Pantheon degli ariani. Allo stesso modo, la storia di Roma è una lotta contro i semiti: etruschi e cartaginesi. Il cristianesimo, ebraizzato da San Paolo e da San Matteo, deforma la pura dottrina del Cristo: la religione "materialista" di Geova penetra nell'Occidente sotto numerose forme che si chiamano umanitarismo, liberalismo, coscienza di classe. Per gli ariani, il principio morale supremo è l'onore e la fierezza della stirpe. Il cristianesimo tenta di sostituirgli il principio della carità, che genera servilità. Ma i popoli germanici resistono a tale intrusione di uno spirito estraneo. Odino rivive nelle grandi figure della storia tedesca: il vescovo Ulfila, Jhoan Sebastian Bach, Goethe e Wagner, il quale esprime  "l'essenziale della civiltà nordico-occidentale". La Riforma luterana, infine, è la grande rivolta dei germani contro la tirannia giudaico-romana. La Francia, dando la caccia agli ugonotti, perde l'ultima possibilità di salvezza: oggi non è che un popolo di bastardi, di cui perfino il tipo razziale si è modificato fino a diventare brachicefalo. Solo la Germania può adesso salvare l'Europa dalla democrazia e dalla tirannia della ragione, prodotti di razze inferiori, in passato battute dai germani e alla ricerca di un'impossibile rivincita. Non esiste una verità assoluta, non esiste un diritto universale: "il diritto è ciò che l'uomo ariano trova giusto". La missione del futuro è la creazione di un nuovo "tipo" umano, che non potrà nascere che dalla formazione di gruppi "virili", di cui l'esercito prussiano offre il modello. Occorrerà allargare il cristianesimo con un quinto Vangelo. Gli eroi della Grande guerra saranno i martiri della nuova fede: "Mastro Eckart" (il mistico del XIV secolo) "e gli eroi in feldgrau sotto l'elmo d'acciaio sono un'unica stessa persona".Queste farneticanti affabulazioni sono dunque lo scenario che fa da sfondo al nazionalsocialismo - e che nessuno ha mai preso sul serio; ma danno l'idea di quali siano le tradizioni cui questi assurdi "miti" abbiano potuto richiamarsi.

Claude David, storico e studioso di letteratura, è professore alla Sorbona.


  * Alfred Rosenberg, (1893-1946) Estone, ideologo fortemente antibolscevico e antisemita. Curò la diffusione dei "Protocolli dei Savi di Sion", fondò il "Kampfbund fur deutsche Kultur". Autore del testo fondamentale nella filosofia dell'NSDAP a titolo Der Mytus des 20 Jahrunderts (Il mito del XX secolo) in cui si limitava a formulare in modo sfacciato e volgare lo spirito radicalmente anticristiano, pagano e razzista del nazionalsocialismo. Predicava la superiorità della razza nordica e la creazione di una chiesa nazionale tedesca fondata sui concetti di razza e purezza del sangue. Ministro per i territori occupati dell'Est. Processato a Norimberga come "grande criminale di guerra", fu condannato a morte e impiccato nel 1946.


Citazioni dal libro: 
Intellettuale a
Auschwitz

di Jean Améry

Bollati Boringhieri, ristampa settembre 1993,
 
Torino, pp. 44 - 48

 

[...] A questo punto è d'uopo fermarsi e aprire una parentesi per parlare del prigioniero di convinzioni religiose o poltico-ideologiche, la cui posizione differenziava sensibilmente da quella del prigioniero intellettuale e umanista.

[...] Tuttavia devo ammettere di aver avuto, e di avere ancora, una profonda ammirazione e per i compagni religiosi e per quelli politicamente impegnati. Potevano essere più o meno "spirituali" nel senso che abbiamo voluto dare al termine, non aveva alcuna importanza. La fede politica e religiosa nei momenti decisivi era per loro un prezioso sostegno, mentre noi intellettuali scettico-umanistici invocavamo i nostri numi letterari, filosofici, artistici. Marxisti militanti, testimoni di Geova settari, cattolici praticanti, eruditissimi economisti e teologi ma anche operai e contadini meno dotti, a tutti loro la fede o l'ideologia forniva quel punto d'appoggio nel mondo che consentiva loro di scardinare spiritualmente lo stato delle SS. In condizioni indicibilmente difficili dicevano messa, e, sebbene tutto l'anno fossero costretti a sopportare i tormenti della fame, da ebrei ortodossi digiunavano il giorno dell'Espiazione. Analizzavano in termini marxisti il futuro dell'Europa, oppure affermavano ostinatamente che l'Unione Sovietica avrebbe certamente vinto. Sopravvissero meglio o morirono con maggiore dignità dei loro compagni intellettuali non credenti o apolitici, sovente tanto più colti e avvezzi al pensiero esatto. Rivedo il giovane prete polacco che non conosceva nessuna delle lingue vive a me note e che quindi della sua fede mi parlava in latino. "Voluntas hominis it ad malum", diceva, e preoccupato osservava un Kapo noto e temuto picchiatore che passava nei pressi. "La misericordia di Dio è infinita e trionferà." I compagni legati da un vincolo religioso o politico non si stupivano, o si stupivano poco, del fatto che nel campo l'inimmaginabile divenisse realtà. Essendosi allontanata da Dio, l'umanità doveva arrivare al punto di commettere  e subire le atrocità di Auschwitz, dicevano i cristiani ed ebrei credenti. Giunto al suo ultimo stadio, quello del fascismo, il capitalismo deve necessariamente sterminare l'umanità, affermavano i marxisti. Nel campo non avveniva nulla di inaudito, solo ciò che gli uomini ideologicamente preparati o credenti, da sempre si aspettavano o avevano comunque ritenuto possibile. La realtà concreta di fronte alla quale erano posti con generosità, veniva affrontata anche in questa occasione con un distacco che imponeva rispetto ma al contempo costernava. Il loro regno non era nel presente bensì nel domani e in un luogo imprecisato: il domani millenaristico e assai lontano dei cristiani, e quello utopistico, terreno, dei marxisti. La morsa della realtà dell'orrore era meno forte laddove la realtà era sempre inserita in uno schema spirituale fisso. La fame non era semplicemente fame bensì conseguenza necessaria della negazione di Dio o del marciume capitalistico. Le percosse o la camera a gas erano la rinnovata passione del Signore o il naturale martirio politico: così avevano sofferto i primi cristiani, così i contadini dissanguati durante la guerra dei contadini in Germania. Ogni cristiano era un san Sebastiano, ogni marxista un Thomas Munzer.

Noi, gli intellettuali scettico-umanisti, eravamo disprezzati da entrambi, da cristiani e marxisti, dai primi con clemenza, dai secondi con impazienza e rudezza. In certi momenti mi chiedevo se il disprezzo non avesse una sua ragione d'essere. Non che per me avessi desiderato, o anche solo ritenuta possibile, la fede politica o religiosa. Non ne volevo sapere di una grazia  della fede che per me non era tale, né di un'ideologia della quale credevo di avere riconosciuto gli abbagli e le errate conclusioni. Non volevo fare parte della loro schiera, della schiera dei compagni credenti, ma avrei desiderato essere imperturbabile, tranquillo, forte come loro. Quanto allora credetti di comprendere, ancora oggi mi pare una certezza: l'essere umano che nel senso più ampio è credente, travalica sé stesso, che la sua fede sia metafisica o immanentistica. Egli non è prigioniero della  della sua individualità e partecipa invece a una continuità spirituale che non viene mai interrotta, nemmeno ad Auschwitz. Egli è al contempo più estraneo e più vicino alla realtà di chi è senza fede. Più estraneo perché la sua posizione finalistica lo porta  a trascurare  i contenuti di realtà esistenti e fissare la sua attenzione in un futuro più o meno prossimo; più vicino alla realtà tuttavia perché proprio per questo motivo non si lascia sopraffare dalla situazione di fatto in cui è coinvolto, e può così a sua volta incidere sulla stessa. Per l'uomo privo di fede la realtà è nel peggiore dei casi un dominio che subisce, nel migliore, è materiale da analizzare. Per il credente è creta che egli plasma, ufficio cui adempie.

 [...] E con questo chiudo la parentesi e ritorno al ruolo dello spirito ad Auschtwitz per ripetere chiaramente quanto detto in precedenza: lo spirito, a meno che non si aggrappasse a una fede religiosa o politica, non serviva o serviva molto poco. Ci abbandonava a noi stessi. Ci sfuggiva proprio nei momenti in cui si trattava di quelle cose che un tempo si sarebbero dette "ultime".

Jean Améry

Jean Améry, pseudonimo di Hans Mayer, nasce a Vienna nel 1912, da famiglia ebraica assimilata nell'Impero austro-ungarico. Compie studi di lettere e filosofia. Nel 1938, con l'annessione dell'Austria alla Germania nazista, emigra in Belgio e si unisce alla Resistenza. Arrestato dai nazisti nel 1943, viene torturato e poi internato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove trascorre due anni. Dopo il 1945 si trasferisce a Bruxelles ed esercita l'attività di scrittore. Muore suicida a Salisburgo nel 1978. 


Citazioni dal libro: 
 LA VITA OFFESA

Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti

a cura di
Anna Bravo e Daniele Jalla
Franco Angeli Libri Milano 1986

 

Pagina 190

[...] A un certo momento i tedeschi hanno portato in campo di concentramento gli obiettori di coscienza, che erano associati alla setta religiosa dei testimoni di Geova. I tedeschi li chiamavano Bibelforscher, lettori della Bibbia. E questa gente ci hanno portato veramente una nota diversa, in base al loro credo religioso, con il concetto di solidarietà, per cui si privavano magari del pane per darne un pezzo da mangiare ad un altro. E tener fede ai principi. Non si trovava un testimone di Geova che per mangiare di più si prestasse a fare le pulizie nella baracca... niente. Naturalmente la cultura che deriva da appartenere a un determinato gruppo religioso o etnico, chiamiamoli così, era decisiva per il comportamento. [...]

Francesco Albertini

Francesco Albertini, nato a Gravellona Toce (Novara) nel 1906, avvocato. Mentre è studente all'università di Torino entra in collegamento con l'ambiente antifascista cittadino. Viene arrestato una prima volta nel 1932 e una seconda volta nel dicembre del 1943. Viene deportato a Mauthausen  e poi a Gusen. Intervista rilasciata a Filippo Colombara e Adolfo Mignemi il 30 aprile 1982 e a Federico Cereja il 7 marzo 1983


Citazioni dal libro: 
Il cuore vigile
Autonomia individuale e società di massa


Bruno Bettelheim
Adelphi Edizioni Milano 1988

 

Pag.35   La concordanza degli opposti

[...] Un comportamento simile caratterizzava un altro gruppo di persone che, secondo la teoria psicoanalitica, si sarebbe dovuto considerare come estremamente nevrotiche o addirittura folli, e perciò particolarmente suscettibili di crollare come persone sotto una tremenda pressione. Mi riferisco ai Testimoni di Geova, i quali non soltanto dimostrarono una non comune dignità umana e un elevatissimo comportamento morale, ma sembravano protetti contro quelle stesse esperienze del campo di concentramento che in breve tempo distruggevano persone considerate molto bene integrate dai miei amici psicoanalisti e da me stesso.

Pagine 140 e 141   Comportamento in situazioni estreme: la coercizione

[...] Tutti i Testimoni di Geova furono inviati nei campi di concentramento come obiettori di coscienza. Essi risentivano le conseguenze dell'internamento meno degli altri gruppi, e riuscirono a conservare la propria integrità in virtù dei loro rigidi princìpi religiosi. Poiché agli occhi delle SS il loro unico delitto era quello di essersi rifiutati di indossare l'uniforme, gli veniva spesso offerta la libertà a condizione che accettassero di prestare servizio militare. Essi, tuttavia, rifiutarono sempre, e ostinatamente di farlo.

I membri di questo gruppo erano in generale persone limitate, senza una grande esperienza del mondo e desiderosi di fare proseliti, ma da ogni altro punto di vista compagni esemplari, servizievoli, corretti e fidati. Diventavano polemici e persino attaccabrighe soltanto quando qualcuno voleva discutere le loro convinzioni religiose. Per la coscienziosità con la quale lavoravano erano spesso scelti come capisquadra. Ma, una volta che lo fossero diventati e avessero ricevuto un incarico da parte delle SS, facevano in modo  che i prigionieri lavorassero bene, rispettando i termini di tempo stabiliti. Pur essendo i soli prigionieri che non offendessero o maltrattassero i compagni (verso i quali, anzi, erano di solito molto gentili), gli ufficiali delle SS li preferivano agli altri come attendenti per la loro abilità e la loro abnegazione. Diversamente dagli altri gruppi di prigionieri in lotta permanente e micidiale fra loro, i Testimoni di Geova non si servirono mai delle loro relazioni speciali con gli ufficiali delle SS per procurarsi posizioni di privilegio o vantaggi di altro genere.

Bruno Bettelheim

 

Bruno Bettelheim, nato a Vienna nel 1903, è universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti di psicologia infantile. E' autore di numerosi testi. Alla vigilia della guerra fu internato a Dachau e a Buchenwald, dove ebbe modo di provare gli orrori del genocidio organizzato e di misurare il comportamento umano dei prigionieri sotto l'incubo della morte. Liberato fortunosamente e trasferitosi in America nel 1939, tentò inutilmente di far conoscere l'orrore dei campi  nazisti: si trovò di fronte ad un muro di incredulità, diffidenza e preconcetto.

Il cuore vigile, rappresenta forse il primo tentativo di chiarire i motivi profondi che sono alla base del fenomeno dei campi di concentramento. Bettelheim si rende conto che il campo di concentramento, prima ancora della vita da recluso, tende a distruggerne la personalità, e che l'unico modo di salvarsi a questo processo di disintegrazione consiste nel resistere, restando attaccati ad alcuni valori fondamentali della vita, mantenendo lucida la propria capacità di comprendere fino in fondo il significato di un'esperienza così terrificante. 


Citazioni dal libro: 
ATLANTE di una deportazione
Lager: perché?


di Piergiorgio Viberti
DEMETRA, dicembre 1999, Colognola ai Colli (Vr), pag. 65

ATLANTE di una deportazione. LAGER perchè?

 

Gli eroi

[...] Un comportamento straordinariamente coraggioso tennero in blocco i Testimoni di Geova deportati a Buchenwald. Destinati a una compagnia di disciplina, dove il regime di oppressione era ancor più severo che nel resto del campo, essi rinunciarono a uscirne in cambio di un rinnegamento dei loro principi, fra cui quello di portare armi  e di prestare giuramento al Reich. Alle successive, ripetute richieste del comandante Rodl in tal senso, essi opposero un fermo diniego, affrontando ogni volta le angherie tremende che ciò comportava. Quando allo scoppio della guerra, furono allineati nella piazza dell'appello e minacciati di essere fucilati sul posto, se si fossero rifiutati di arruolarsi nell'esercito e di servire la patria, essi resistettero valorosamente. L'esecuzione non ebbe luogo., ma essi furono destinati alle cave di pietra e non fu loro concesso il ricovero in infermeria. Ciò nonostante, quando venne organizzata dalle autorità del campo una colletta per i combattenti tedeschi sul fronte orientale, essi non contribuirono. Per questo furono costretti  a lavorare tutto il giorno a una temperatura di 20° sotto zero con la sola divisa addosso, avendo dovuto consegnare la biancheria intima e cambiare gli zoccoli di legno. Le persecuzioni proseguirono negli anni successivi con la stessa intensità, ma i Testimoni di Geova non si piegarono mai, anche se pagarono la loro ostinazione con un numero altissimo di vittime.


 
Dal libro Atlante di una deportazione  LAGER: Perché?  1ª edizione dicembre 1999 © DEMETRA S.r.l.


Citazioni dal libro: 
Le donne di Ravensbrück

Lidia Beccaria Rolfi
Anna Maria Bruzzone

Testimonianze di deportate politiche italiane
Einaudi Editore Torino 1978

pagine 14-16, 66

Ravensbrück, ma questo lo sapremo molto più tardi, è una delle città concentrazionarie più giovani della Germania nazista ed è l'unico Lager esclusivamente femminile.

Come tutte le città, ha una storia.

E' stata costruita all'inizio del '39 da un Kommando di deportati [...]

In pochi mesi i deportati di Sachsenhausen, quasi tutti politici antinazisti obbligati a lavorare per "rieducarsi", costruiscono il muro di cinta, le torrette di osservazione per le sentinelle, sedici baracche dormitorio,  i servizi essenziali e montano i fili spinati con la corrente ad alta tensione.

Le prime 867 deportate arrivano a Ravensbrück il 13 maggio. Sono tutte tedesche, eccettuate sette austriache, e per la maggior parte sono deportate per motivi politici. Alcune sono in carcere fin dal '33. Sono comuniste, socialdemocratiche, antinaziste in genere, o anche appartenenti alla setta dei testimoni di Geova, setta pacifista e quindi contraria al regime della violenza. [...]

Nell'agosto o nel settembre del '39 arriva a Ravensbrück il primo trasporto di zingare con bambini, ritenuti anch'esse pericoli per il Terzo Reich, poi, con l'inizio della guerra e l'occupazione dei vari paesi d'Europa, arrivano i primi trasporti di austriache, cecoslovacche, polacche, olandesi, norvegesi. Fra loro vi sono alcune ebree e molte testimoni di Geova.. Queste ultime, chiamate Bibelforscherin, cioè studiose della Bibbia, sono riunite in un unico blocco e sottoposte a una disciplina durissima. [...]

Per la città concentrazionaria non è previsto il cimitero. Nei primi anni i cadaveri delle deportate decedute in campo sono bruciati nel crematorio di Füstenberg, poi, come la popolazione cresce viene costruito un forno crematorio indipendente, giusto al di fuori del muro di cinta, in prossimità del lago. E' in muratura, e all'inizio è un forno a due bocche, ma nel '44, siccome il numero delle morte aumenta, è potenziato con una terza bocca. La costruzione è tipica: una casetta bassa con un camino altissimo, quasi una ciminiera, visibile da ogni punto del campo. Il camino, a partire dall'estate del '44, fuma giorno e notte. Al buio è ancora più sinistro: sulla cima brilla una fiamma verdastra e il vento quando spira da Nord, porta fino in campo l'odore della carne bruciata e scorie e cenere che cadono addosso, imbrattano i visi e le mani, impregnano gli abiti. I triangoli viola, le testimoni di Geova, sono addette al trasporto della cenere dal crematorio al lago.

Le vedo andando e tornando dal lavoro. Tirano delle carriole come quelle che usano i muratori, piene di cenere grigia. E' difficile accettare l'idea che quella cenere è tutto quello che resta del corpo di tante compagne che vediamo sparire dai blocchi. Entrano al Revier e non tornano più, diventano fumo che esce dal camino e polvere grigia portata in giro sulla carriola e scaricato nel lago. Nel lago, durante i mesi d'estate, vedo le mogli  e i bambini degli ufficiali SS che fanno il bagno e si divertono a sguazzare nell'acqua. Li vedo quando torniamo dal lavoro fünf zu fünf , a passo di marcia, trascinando gli zoccoli. I bambini, biondi e paffuti come tutti i bambini tedeschi, e le donne con i ricciolini della permanente e le gambe piene di cellulite, spesso sghignazzano al nostro passaggio e qualche volta sputano con supremo disgusto e insultano. Intanto le testimoni di Geova versano nel lago le carriole di cenere del crematorio e l'acqua che lambisce la sponda diventa grigia. Il risucchio porta la polvere grigia al largo e le donne delle SS e i bambini biondi nuotano nella polvere grigia. La cenere dei morti è asettica, e non inquina.

Lidia Beccaria Rolfi è nata e vive a Mondovì, dove insegna didattica. Da giovane entrò a far parte della Resistenza. Arrestata nell'aprile del '44, fu deportata nel campo di sterminio di Ravensbrück . Fa parte del consiglio nazionale dell'Associazione ex deportati e rappresenta l'Italia nel comitato internazionale di Ravensbrück.

Anna Maria Bruzzone è nata a Mondovì e vive a Torino. Insegna materie letterarie. Insieme con Rachele Farina ha pubblicato il libro "La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi".


Citazioni da:
"Enciclopedia delle Religioni in Italia"
CESNUR

Centro Studi sulle Nuove Religioni

Massimo Introvigne – Pier Luigi Zoccatelli
Nelly Ippolito Macrina – Veronica Roldan

Editrice ELLEDICI

Citazione p. 361

In Italia il primo gruppo di Studenti Biblici comincia a riunirsi nel 1903 a San Germano Chisone, una località presso Pinerolo (Torino). La prima congregazione si costituisce, sempre a Pinerolo, nel 1908. La prima assemblea italiana si tiene, ancora a Pinerolo, nel 1925. Quell’anno gli aderenti sono circa 150. A partire dal 1925 si abbatte su di loro la persecuzione fascista, che si intensifica con l’occupazione tedesca, allorché alcuni Testimoni italiani prendono la via dei campi di concentramento. Praticamente tutti gli aderenti italiani (evangelizzatori e simpatizzanti) sperimentano personalmente qualche forma di persecuzione. Buona parte dei pochissimi obiettori di coscienza sotto il fascismo sono Testimoni di Geova. Nell’aprile del 1940 26 Testimoni compaiono davanti al tribunale speciale, che li condanna a un totale di 186 anni e 10 mesi di reclusione (saranno tutti scarcerati tra il 1943 e il 1944, ma solamente nel 1957 quella decisione sarà riformata e i 26 assolti). Secondo una stima dello storico valdese Giorgio Rochat, su 142 persone condannate dai tribunali fascisti o inviati al confino o internati per la loro attività religiosa, 83 (circa il sessanta per cento) sono Testimoni di Geova.

 

Vedi anche : I Testimoni di Geova durante il regime fascista. di Paolo Piccioli. Articolo pubblicato da "Studi Storici" n.1/2000. Carrocci Editore


Citazioni da:
"Auschwitz spiegato a mia figlia"
di Wieviorka Annette  

Einaudi Tascabili - Traduzione di Eliana Vicari Fabris - Codice ISBN: 88-06-15387-0

Annette Wieviorka

Annette Wieviorka risponde alle domande di sua figlia Mathilde su Auschwitz e la distruzione degli ebrei d'Europa. Domande crude e dirette che esprimono l'incredulità di chi non può concepire l'assurda tragedia dei lager nazisti. Un dialogo serrato e puntuale, sollecitato dalle curiosità di una ragazzina sull'enigma del male assoluto".

A pag. 24 sono menzionati anche i testimoni di Geova

   "I campi dei concentramento erano posti terrificanti.....I prigionieri dei campi soffrivano la fame, il freddo e spesso dovevano lavorare nelle cave di pietra o nelle fabbriche compiere lavori faticosi, a volte mortalmente pericolosi. Erano vittime di umiliazioni estreme. All'inizio erano riservati ai tedeschi: oppositori del regime, testimoni di Jehovah che rifiutavano di abiurare la propria fede, fare il saluto nazista o, successivamente, entrare nell'esercito, per gli uomini, e lavorare nelle fabbriche militari, per le donne".


Wieviorka Annette 
"Kako sem hčerki razložila Auschwitz
edizione slovena

Pagina 23  

    "Taboriščniki so trpeli lakoto, zeblo jih je in pogosto so morali v kamnolomih ali tovarnah opravljati naporna, včasih celo smrtno nevarna dela. Bili so žrtve skrajnih ponižanj. Sprva so oblasti zapirali Nemce: politične oporečnike, pa tudi pripadnike verske sekte Jehovine priče, ki se niso hoteli odpovedati svoji veri, sprejeti hitlerjevskega pozdrava in pozneje - to velja za moške - stopiti v vojsko ali - v primeru žensk - delati v vojaški industriji".


Torna all'indice dei documenti.


Copyright ©2001-2002 by Redazione Triangolo Viola . Tutti i diritti riservati.
Se riscontri errori
contattaci via e-mail. Ultimo aggiornamento pagina: 07/11/2002 .